El Pepp, storia (vera) di calcio (vero)

Il solo autentico fenomeno che in un secolo di storia abbia prodotto il calcio italiano non ha nulla in teoria per essere tale.

Il fisico proporzionato ma relativamente gracile, le ginocchia vaccine, lo sguardo perso degli occhi chiari a contrasto con la brillantina lucidissima sui capelli corvini, Giuseppe Meazza detto dai milanesi Peppìn o alla più spiccia El Pepp è il figlio della verduraia di Porta Romana, dove nasce il 23 agosto del 1910, e, orfano di padre, cresce al Trotter, l'istituto che la filantropia municipale riserva ai bambini svantaggiati o comunque segnati da una dieta troppo povera di calorie.

Peppìn ha i piedi decisamente più portati delle mani al lavoro né il decorso di una carriera leggendaria smentirà la sua innata vocazione al loisir, insomma all'ozio ben remunerato, al Campari e al gioco delle carte o alla frequentazione rigorosamente cadenzata delle cosiddette Maison Tellier (un titolo di Maupassant che lui, dialettofono puro, ignora senz'altro ma di cui coglie al volo il senso).

La sua vita è un tracciante dentro al rettangolo di gioco, in tutto venti campionati fra il '27 e il '47: ciò che precede non esiste, quanto segue è vaniloquio puro, non più che una modesta trafila da tecnico e incarichi formali nel suo club di sempre, l'Internazionale di Milano (cui comunque riesce a segnalare un campione adolescente che si chiama Giacinto Facchetti).


Tale è la sua classe che potrebbe ricoprire ogni ruolo ma in sostanza è un centravanti di classica accezione che con gli anni si reinventa interno di regia. Giocando da punta vince il primo campionato a girone unico, nel '30, quando il suo repertorio può già dirsi definito: scatto, controllo e tiro indifferentemente coi due piedi; capacità di stacco e facoltà «mesmerica» di ipnotizzare il portiere avversario nei calci di punizione e di rigore. In genere lo marcano stretto e, specie in provincia, volentieri lo picchiano, dunque predilige i grandi spazi e il contropiede in cui esibisce il pezzo forte, vale a dire la «chiamata» del portiere in uscita, il quale viene anticipato e/o aggirato quel tanto che gli basti per toccare astutamente in rete.

Suo palcoscenico usuale è l'Arena in via Canonica o, prima, il campo di via Goldoni con la tribuna di legno che si schianta, con morti e feriti, mentre lui impassibile, ignaro di tutto quanto non sia football, porta al terzo scudetto l'Internazionale guidata dal tecnico che lo ha lanciato, l'ebreo ungherese Arpad Weisz. Non solo la classe smagliante ma il carico di traumi accumulati lo inducono via via a retrocederne il raggio d'azione di trenta metri buoni.

La sua metamorfosi si attua ai Mondiali di Roma (1934) sotto l'occhio vigile del Duce e l'ala protettrice, subalpina e moralista, di Vittorio Pozzo: costui gli mette al fianco combattenti di forza belluina, il centromediano Luisito Monti e il laterale Attilio Ferraris IV, nonché un interno compassato che funge da pendolo ovvero da metronomo, Giovanni Ferrari, la mezzala più classica che abbia mai annoverato il calcio italiano: davanti gli stanno due ali di valore mondiale, gli oriundi Guaita e Orsi con il vecchio centravanti bolognese Angelo Schiavio, che segna in extremis il gol della vittoria contro la Cecoslovacchia.

Quattro anni dopo, a Parigi sul terreno di Colombes, quando l'Italia di Pozzo bissa il titolo battendo in finale l'Ungheria di Giorgio Sarosi, Meazza è all'apice della parabola: stavolta a portargli la borraccia è il laterale veneziano e amico inseparabile Pietro Serantoni, mentre lui da baricentro duetta con l'uruguagio Michele Andreolo e l'eterno Giovanni Ferrari; in attacco può disporre, sulle ali, di Gino Colaussi come di paso doble Biavati mentre il centravanti è un vercellese ruvido di stile ma acrobata di potenza ciclonica, Silvio Piola.


Tale è divenuto il mito di Meazza che col Brasile in semifinale tutti giurano abbia calciato il rigore da fermo, reggendo con la mano sinistra l'elastico strappato dei pantaloncini.
È un gesto di sovranità calcistica e, insieme, di temeraria non chalance che chiama la Nemesi ed equivale inconsciamente all'inizio della fine: mentre il proletariato milanese e i tifosi dell'Inter, ribattezzata Ambrosiana per il cripto-antifascismo del suo primo nome, continuano a chiamarlo el Pepp, colui che tutt'Italia chiama invece Balilla ha il suo ultimo frangente schiantato dalla guerra. Senza essere inglorioso, il finale è veramente mesto: Meazza ha un piede ghiaccio per problemi di circolazione, l'Inter non fa nulla per tenerselo e gli concede addirittura comparsate fra i rivali più odiosi, il Milan (che l'autarchia guerrafondaia chiama adesso Milano) e una Juve in declino dove restano a parlare la sua lingua non più di tre colleghi, l'amico Pietro Rava, l'esordiente Carletto Parola e un centravanti kosovaro dal tiro potente, Riza Lustha.

Torna a casa soltanto per il lungo addio, che si compie ufficialmente a San Siro, lo stadio dei nemici rossoneri che da trent'anni paradossalmente è intitolato a lui: gioca l'ultima partita il 29 giugno del '47, genetliaco leopardiano, uno scialbo Inter-Bologna cui si limita ad assistere.

Di tutto questo, vita/morte/miracoli del Pepp, si discorre in Il mio nome è Giuseppe Meazza - ExCogita Editore, pp. 290, 35 euro - un album magnifico per precisione filologica e accuratezza grafica, fitto di documenti, immagini inedite e reportages d'epoca: lo hanno assemblato con sapienza Marco Pedrazzini e Federico Jaselli Meazza, nipote d'arte. Per mezzo secolo il suo ritratto , anzi la sua letterale apologia rimane un obbligo di tutti gli scrittori di calcio, da Bruno Roghi a Gianni Brera, da Antonio Ghirelli a Oreste del Buono.

Il giorno dopo la sua morte, 21 agosto del '79, spicca l'epitaffio (o forse l'epinicio) su Il Giornale di Indro Montanelli che cotanto campione ha ispirato proprio a Brera:

«Perché Peppìn Meazza è il football, anzi el folber per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andare oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario».
Del resto, dimentichi persino del saluto fascista in tribuna d'onore, a Colombes in quel giugno del '38, i francesi lo avevano insignito sul campo del titolo di Grand Peintre du football. Sì, gran pittore del calcio, un autentico maestro dell'Impressionismo.

di Massimo Raffaeli (il manifesto del 30 marzo 2011)