Causa alle banche per il degrado urbano

La città di Baltimora, negli Usa, ha fatto causa a Wells Fargo, principale erogatore di mutui nella zona, per aver concentrato finanziamenti "tossici" nei quartieri più poveri.

Così, quando la crisi è scoppiata (insieme alla bolla che l'ha generata) le zone già meno "belle" della città si sono definitivamente degradate a causa della grande massa di pignoramenti.

Un lato meno noto della follia dei mutui subprime, evidenziato da un bell'articolo del Financial Times.

Il dono dei corrotti

L'Italia è tra i paesi che più soffrono la corruzione. Certamente, tra le economie avanzate, è quella maggiormente esposta a tale piaga. Per farsi un'idea precisa, basata su numeri e fatti, basta leggere qui o qui.

Poichè tanto se ne parla e poco si risolve, è interessante la provocazione dell'articolo seguente, di Bruno Accarino, che propone del fenomeno una lettura antropologica e sociale.

Ormai giochiamo a chi le spara più grosse in fatto di cinismo. La mafia? Il più efficiente sistema di welfare dopo la Germania nazista, che grazie alle sue razzie in Europa riuscì ad aumentare le pensioni durante la guerra. Il tale o tal altro uomo politico colto con le mani nel sacco della refurtiva? È come l’acne adolescenziale, stupirebbe la sua assenza. Chi ha veramente sradicato la corruzione? Non certo Hitler, come ci ha insegnato tra gli altri Luchino Visconti. Forse Pol Pot, solo che fece mancare la materia prima sia dei corrotti che dei corruttori: per non sbagliare, li ammazzò tutti. Di questi tempi tira il disincanto, le sparate savonaroliane sono ineleganti in partenza e fanno diradare gli amici – scompaginano gli equilibri del salotto -, la stagione di tangentopoli non entusiasmò nessuno già allora, oggi al massimo evoca l’immagine di una sinistra avviata al disorientamento.

Era inevitabile che prima o poi i mariuoli comparissero alla corte di re Niklas Luhmann. Non quelli che si arrangiano nei supermercati o con i borseggi sugli autobus, ma i mariuoli veri e magari dotati di un tocco di classe: i corrotti. La teoria dei sistemi, di cui Luhmann è stato in parte il fondatore e in parte ancor più grande un raffinato interprete, ha lasciato inesplorati pochi territori ed ha sempre sofferto di bulimia espansionistica, ma solo ora la macchina del pensiero funzionalistico ha messo definitivamente a fuoco la corruzione. Tutti sospettiamo che le bustarelle racchiudano a volte più simboli che banconote, ma è raro che la corruzione diventi oggetto di analisi e non di querimonia, di denuncia o di sanzione. Dove nasce la rassegnazione alla bustarella come presenza fissa del paesaggio e come estrosa semplificazione di qualche meccanismo inceppato?

Mecenati e talent scout
Limitrofa com’è a forme elementari di socializzazione, tra le quali il dono, la corruzione è inafferrabile proprio a motivo della sua sgusciante ambiguità: anche un barone universitario che lucra favori sessuali o che schiavizza i suoi allievi come ghost writers si autointerpreta come un elargitore, come un mecenate o come un generoso talent scout. Il confine tra la gratitudine e la corruzione è molto precario. Nessuna riflessione seria sulla corruzione può saltare il nodo del dono, o incontrando i testi che lo hanno pionieristicamente avvistato come forma di comunicazione sociale, o affidandosi alle già strutturate ricerche legate al nome di Marcel Mauss: molti delinquenti incalliti, anche ricattatori, si offenderebbero se il prezzo di una transazione corruttiva fosse classificato come un compenso estorto e non come un regalo spontaneo.
Se si pretendesse di cancellare dalla faccia della terra la corruzione, bisognerebbe fare altrettanto per la seduzione: il che implicherebbe intanto la riscrittura di tutta la narrazione adamitica e sarebbe teologicamente indifendibile perché postulerebbe l’abolizione del diavolo, che è invece accasato da sempre come parte costitutiva della fede religiosa.

Sedotti e seduttori
Dispiace disilludere Di Pietro, ma se Berlusconi fosse il diavolo noi saremmo fottuti e Silvio sarebbe ineliminabile. Non da ultimo, la soppressione radicale della corruzione inasprirebbe le già tribolate vicende d’amore, che nella seduzione attiva e passiva trovano almeno una rudimentale cartografia, un canovaccio, un testo da seguire o un copione. Le radici antiche della corruzione si lasciano inseguire, di fatto, fino a scenari rituali e sacrificali che non a caso includono anche la magia e la stregoneria, giacché le streghe o sono sedotte (dal diavolo) o sono seduttrici. D’altra parte: varrebbe la pena campare senza sperare di recitare almeno una volta la parte della sedotta o della seduttrice, del sedotto o del seduttore? Anche con la seduzione diabolica, che peraltro intimidisce perché dispone di un corredo imponente di testi sacri fondativi, tocca venire a patti.
Il circuito fiduciario e confidenziale che scatta con la corruzione non aderisce agli schemi verticali degli arcana imperii e delle abditae camerae, ma ad una segretezza che include gli interessati e riserva diffidenza al pubblico escluso. E tuttavia anche il pubblico, informato dei possibili vantaggi o svantaggi attraverso pettegolezzi o racconti di soggetti coinvolti delusi o soddisfatti, sviluppa curiosità e interessi che sono fondati sull’imitazione e sulla rivalità. È il punto più dolente: la corruzione si autoalimenta accrescendo la probabilità di essere accettata ad ogni nuovo evento corruttivo.


La griglia delle passioni, quella che evoca per contrasto la gamma dei giudizi moralizzanti e dell’indignazione scandalizzata, non è assente (affascinante è, per esempio, il diagramma del trinomio avidità/sazietà/scarsità), ma non ha l’impatto auspicabile sul grado di estensione e sulla capillarità della corruzione. C’è semmai da render conto del capitolo metaforico, e chissà se – in tempi di bioingegneria e di implantologia – solo innocuamente metaforico, legato alle vicende del corpo e alla perfectio della natura soggetta a corruptio. In una concezione organicistica della società, o anche nella tradizione dei «due corpi del re» ricostruita da Ernst Kantorowicz, lo stato di sanità del corpo va continuamente verificato, ma non ci si può accontentare di ciò che è visibile e che si offre alla superficie. Se la parola latina corruptio ha anche il significato debole dell’alterazione o del guasto rimediabile, la parola tedesca Bestechung (corruzione) deriva dal linguaggio montanaro e indica la consuetudine di sondare lo stato interno delle costruzioni di legno dotate di vitale importanza. Un’altra radice della parola si riferisce all’attività di calzolai e cucitrici che pungevano la scarpa o il capo di vestiario per garantirne la compattezza e per evitare lo sfrangiamento dei margini. Una prova effettuata attraverso la «corruzione» doveva quindi produrre la possibilità di controllare uno stato interno e al tempo stesso di saggiare la tenuta delle parti in rapporto al tutto, come in ogni buona impresa organicistica.

Il parassita di Serres
Molti materiali storici ed etnologici possono essere riletti con occhi nuovi: se è del tutto prevedibile che si affacci il traffico delle indulgenze cristiane, contro il quale scese in campo Lutero, meno prevedibile è la comparsa dell’inquisizione o la parabola evolutiva dell’affitto, emersa da un sottile e lento depauperamento del diritto di ospitalità a partire dal medioevo e fino a tempi proto-moderni. In questo caso quella specie di maledizione inquietante di ogni razionalità sociale che è l’ospite getta luce, nel suo percorso, sul carattere parassitario della corruzione: ma in un senso meno banale dei suoi costi sociali complessivi (tanto, chi vuoi che se ne freghi) o della sua affinità alla logica da sanguisuga della rendita fondiaria.

In quanto «eccitatore termico», secondo la definizione che ne ha dato Michel Serres, il parassita non ha il potere di trasformare un sistema, ma quello di cambiarne a piccoli passi lo stato: spinge alla fluttuazione l’equilibrio o la distribuzione energetica del sistema. Al confine tra la funzione dell’incitare e quella dell’eccitare, esso altera lo stato energetico del sistema, i suoi spostamenti, le sue condensazioni: lavorando su deviazioni infinitesimali, ci conduce in prossimità dei più semplici e universali agenti del mutamento sistemico.

Claude Bernard definiva i veleni «re-agenzie reali della vita»: quasi quasi bisognerebbe benedirli. È così che la corruzione alza continuamente la soglia di percezione e, se esiste ancora, di voltastomaco: è forse il fenomeno che siamo soliti chiamare assuefazione, salvo il fatto che l’overdose farmacologicamente impazzita, come quella che il capitale finanziario ci rovescia periodicamente addosso, non è propriamente un fenomeno di corruzione, sia pure su scala gigantesca, ma una rapina. Eppure, anche qui si trovano vie di transazione e di risanamento: o come alta progettualità keynesiana o, più terra terra, come bassa cucina lobbistica.


Velenosa o meno che sia, la corruzione non si installa mai nella zona dei traumi e delle catastrofi, ma sempre in quella dei movimenti di piccolo cabotaggio e difficilmente intercettabili: non diversamente dal parassita, che è ad un tempo un intruso scroccone e, come suggerisce l’etimo, un commensale a pieno titolo. La silenziosità della corruzione, la quale diventa chiassosa solo con l’intervento del diritto e della magistratura – il che significa: di un altro sistema -, non dipende solo dal vincolo della segretezza che intercorre tra il corruttore e il corrotto, ma dalla funzione dinamicamente immunitaria che essa assolve quando sonda i territori del lecito e dell’illecito e la possibilità di ampliarli e di ridefinirli.

Il brivido della routine
Rispetto alla rete fittissima delle fattispecie giuridiche che la inseguono trafelate, perché è come cercare di acchiappare un’anguilla, la corruzione ha una marcia in più: frequenta solo le zone grigie dell’evoluzione. Al confronto, la politica e il diritto soffrono di una patetica anelasticità e dispongono solo di due opzioni: produrre azioni desiderate o schivare azioni indesiderate. Queste ultime possono essere vietate, mentre le prime possono essere consentite oppure può essere proibita la loro omissione. Il potere diffuso si àncora alla differenza tra vietato e concesso, approfittando dell’effetto di esclusione che essa genera. Ci sono azioni che non configurano un torto giuridico o che non sono espressamente consentite: la corruzione ritrascrive il potere da comando a influenza ed assorbe così insicurezza, perché il verificarsi della comunicazione non viene problematizzato. Una forma molto generale dell’influenza è l’autorità, che è in funzione quando si presuppone che un agente della comunicazione, se richiesto di fornire i motivi della sua comunicazione, potrebbe esporli come una scelta riuscita di un’informazione. Non bisogna chiedere i motivi, ma si può dare per acquisita la motivabilità: ecco perché c’è un assorbimento di insicurezza. L’influenza dell’autorità è anch’essa tacita: quando invece viene «interrogata», riapre le porte all’insicurezza.


Il guaio concettuale (e sociale?) della corruzione è proprio questo: ha a che fare con tutto e con il contrario di tutto. Sembra anche lecito sospettare che la corruzione sia a sua volta sedotta (si può dire?) dalla voglia di sporgersi, dal brivido dell’allontanamento dalla routine, dal caos come voragine o come mancanza di misura, dal rischio elettrizzante della trasgressione e dalla sfida lanciata ad un ordine mortifero e impiegatizio.
Fin qui alcune informazioni di base su come leggere il fenomeno della corruzione con l’ausilio di strumenti che prescindono dalla riprovazione morale e dalla sanzione giuridica. Ma alla resa dei conti potrebbe aver ragione la casalinga che, appena sveglia, pensa a voce alta: questi farabutti, insediati come sono nei posti giusti, si mettono in tasca, con uno solo dei loro imbrogli, l’equivalente di quel che mio marito metalmeccanico porta a casa in dieci anni di lavoro salariato. Il problema è che, con la verità lapalissiana e filosoficamente inattaccabile della casalinga, nella cosiddetta coscienza civile del paese non riusciamo a sfondare. Proviamo allora con ipotesi più rarefatte, e che Dio ce la mandi buona (questo è, a ben vedere, un tentativo di corruzione negoziale della divinità).

Bruno Accarino, il manifesto, 31 dicembre 2009

Ai lobbisti d'America: se volete la guerra, guerra sia!

Se ve la cavate con l'inglese, ecco l'ultimo discorso di Obama sulle banche:

Good morning, everybody. I just had a very productive meeting with two members of my Economic Recovery Advisory Board: Paul Volcker, who's the former chair of the Federal Reserve Board; and Bill Donaldson, previously the head of the SEC. And I deeply appreciate the counsel of these two leaders and the board that they've offered as we have dealt with a broad array of very difficult economic challenges.

Over the past two years, more than seven million Americans have lost their jobs in the deepest recession our country has known in generations. Rarely does a day go by that I don't hear from folks who are hurting. And every day, we are working to put our economy back on track and put America back to work. But even as we dig our way out of this deep hole, it's important that we not lose sight of what led us into this mess in the first place.

This economic crisis began as a financial crisis, when banks and financial institutions took huge, reckless risks in pursuit of quick profits and massive bonuses. When the dust settled, and this binge of irresponsibility was over, several of the world's oldest and largest financial institutions had collapsed, or were on the verge of doing so. Markets plummeted, credit dried up, and jobs were vanishing by the hundreds of thousands each month. We were on the precipice of a second Great Depression.

To avoid this calamity, the American people -- who were already struggling in their own right -- were forced to rescue financial firms facing crises largely of their own creation. And that rescue, undertaken by the previous administration, was deeply offensive but it was a necessary thing to do, and it succeeded in stabilizing the financial system and helping to avert that depression.

Since that time, over the past year, my administration has recovered most of what the federal government provided to banks. And last week, I proposed a fee to be paid by the largest financial firms in order to recover every last dime. But that's not all we have to do. We have to enact common-sense reforms that will protect American taxpayers -– and the American economy -– from future crises as well.

For while the financial system is far stronger today than it was one year ago, it's still operating under the same rules that led to its near collapse. These are rules that allowed firms to act contrary to the interests of customers; to conceal their exposure to debt through complex financial dealings; to benefit from taxpayer-insured deposits while making speculative investments; and to take on risks so vast that they posed threats to the entire system.

That's why we are seeking reforms to protect consumers; we intend to close loopholes that allowed big financial firms to trade risky financial products like credit defaults swaps and other derivatives without oversight; to identify system-wide risks that could cause a meltdown; to strengthen capital and liquidity requirements to make the system more stable; and to ensure that the failure of any large firm does not take the entire economy down with it. Never again will the American taxpayer be held hostage by a bank that is "too big to fail."
Now, limits on the risks major financial firms can take are central to the reforms that I've proposed. They are central to the legislation that has passed the House under the leadership of Chairman Barney Frank, and that we're working to pass in the Senate under the leadership of Chairman Chris Dodd. As part of these efforts, today I'm proposing two additional reforms that I believe will strengthen the financial system while preventing future crises.

First, we should no longer allow banks to stray too far from their central mission of serving their customers. In recent years, too many financial firms have put taxpayer money at risk by operating hedge funds and private equity funds and making riskier investments to reap a quick reward. And these firms have taken these risks while benefiting from special financial privileges that are reserved only for banks.

Our government provides deposit insurance and other safeguards and guarantees to firms that operate banks. We do so because a stable and reliable banking system promotes sustained growth, and because we learned how dangerous the failure of that system can be during the Great Depression.

But these privileges were not created to bestow banks operating hedge funds or private equity funds with an unfair advantage. When banks benefit from the safety net that taxpayers provide –- which includes lower-cost capital –- it is not appropriate for them to turn around and use that cheap money to trade for profit. And that is especially true when this kind of trading often puts banks in direct conflict with their customers' interests.
The fact is, these kinds of trading operations can create enormous and costly risks, endangering the entire bank if things go wrong. We simply cannot accept a system in which hedge funds or private equity firms inside banks can place huge, risky bets that are subsidized by taxpayers and that could pose a conflict of interest. And we cannot accept a system in which shareholders make money on these operations if the bank wins but taxpayers foot the bill if the bank loses.

It's for these reasons that I'm proposing a simple and common-sense reform, which we're calling the "Volcker Rule" -- after this tall guy behind me. Banks will no longer be allowed to own, invest, or sponsor hedge funds, private equity funds, or proprietary trading operations for their own profit, unrelated to serving their customers. If financial firms want to trade for profit, that's something they're free to do. Indeed, doing so –- responsibly –- is a good thing for the markets and the economy. But these firms should not be allowed to run these hedge funds and private equities funds while running a bank backed by the American people.

In addition, as part of our efforts to protect against future crises, I'm also proposing that we prevent the further consolidation of our financial system. There has long been a deposit cap in place to guard against too much risk being concentrated in a single bank. The same principle should apply to wider forms of funding employed by large financial institutions in today's economy. The American people will not be served by a financial system that comprises just a few massive firms. That's not good for consumers; it's not good for the economy. And through this policy, that is an outcome we will avoid.

My message to members of Congress of both parties is that we have to get this done. And my message to leaders of the financial industry is to work with us, and not against us, on needed reforms. I welcome constructive input from folks in the financial sector. But what we've seen so far, in recent weeks, is an army of industry lobbyists from Wall Street descending on Capitol Hill to try and block basic and common-sense rules of the road that would protect our economy and the American people.

So if these folks want a fight, it's a fight I'm ready to have. And my resolve is only strengthened when I see a return to old practices at some of the very firms fighting reform; and when I see soaring profits and obscene bonuses at some of the very firms claiming that they can't lend more to small business, they can't keep credit card rates low, they can't pay a fee to refund taxpayers for the bailout without passing on the cost to shareholders or customers -- that's the claims they're making. It's exactly this kind of irresponsibility that makes clear reform is necessary.

We've come through a terrible crisis. The American people have paid a very high price. We simply cannot return to business as usual. That's why we're going to ensure that Wall Street pays back the American people for the bailout. That's why we're going to rein in the excess and abuse that nearly brought down our financial system. That's why we're going to pass these reforms into law. Thank you very much, everybody.


Dunque, come al solito, un linguaggio diretto e chiaro, anche alle potenti lobby bancarie. Vedremo che succederà. Intanto, anche da noi, qualcuno sposa il ritorno ad una separazione tra banca e finanza...

Stranieri come italiani: una (triste) constatazione

In un paese tollerante, aperto e solidale non avrebbe senso porsi il problema. In Italia sì. Così fa (piccola) notizia che - secondo una recente indagine - nella sala d'aspetto di un pronto soccorso, tra italiani e immigrati irregolari, non ci sono differenze. L'indagine è stata realizzata dal Naga, condotta in collaborazione con un gruppo di medici di Medicina generale dell'ospedale di Monza.
Lo studio del Naga - che si scarica qui - ha messo a confronto 974 diagnosi effettuate nel mese di ottobre ai cittadini stranieri irregolari che sono stati curati presso l'ambulatorio del Naga con 981 diagnosi effettuate a pazienti italiani di pari età che si sono rivolti ad ambulatori di medicina generale di Monza. Malattie ginecologiche, cardiovascolari, metaboliche ed endocrine incidono egualmente nella popolazione italiana e in quella immigrata. Le malattie respiratorie invece, quelle gastroenteriche e psichiche, le malattie gravi sono invece meno presenti negli immigrati irregolari rispetto agli italiani. Tra gli stranieri invece sono più diffusi i dolori alle ossa, le malattie della pelle (queste ultime meno rilevanti in termini di salute).
Questa ricerca permette di confermare la teoria del "migrante sano". Soggetti giovani, tendenzialmente sani, ma che si ammalano a causa delle difficili condizioni abitative e lavorative che devono affrontare. Precarie condizioni di vita, mancanza di informazioni e scarso accesso alle strutture sanitarie gravano pesantemente sul benessere degli immigrati, portando a esaurimento il "patrimonio di salute" di cui è portatore.

Sarà una buona notizia?

Non si può non provare un filo di sadica soddisfazione davanti all'ennesima disfatta del tanto scaltro dalema-sotuttoio. Anche la Puglia, sua regione di origine, l'ha tradito. O forse sarebbe il caso di dire che è il suo stesso narcisismo, misto al mai domo politicismo da partito old style (da banana republic), che l'ha (ancora) tradito.

Ma ora? Saremo in mano al PDL per i prossimi 50 anni? Silvio lascerà a Piersilvio e questi a PierPier...?

Come e quando un qualcosa di simile alla sinistra (moderata, per carità!) riuscirà a tornare a governare il paese?

Il PD è allo sbando totale. Bersani forse è andato in vacanza e il guaio è che comunque nessuno se ne è accorto.

No, proprio non riesco a gioire per la vittoria del pur simpatico Niki!

Processo breve

Stamattina ero come al solito davanti alla scuola delle mie figlie. Traffico intenso e parcheggi in doppia e tripla fila. Un malcostume che non accenna a ridursi, anzi. Sulla strada si blocca un camion più grande del solito che proprio non ce la fa a incastrarsi nella morsa delle automobili.

L'autista aspetta un po', poi si spazientisce e inizia a protestare, chiede di spostare le auto in doppia fila. L'autista prende il telefono per chiamare i vigili e chiedere la rimozione delle automobili "irregolari". Si crea un capannello di gente. Presumo, assistendo distrattamente alla scena, che qualcuno lo vada ad aiutare.

Presumo male. Il capannello è una protesta non nei confronti delle automobili mal parcheggiate ma verso il camion che vorrebbe passare, come se la strada non stia lì a tal scopo. Scatta il peggior mutualismo, la difesa a oltranza - quasi mafiosa - dell'illecito condiviso e i cui benefici nessuno vuole perdere.

Insomma, l'autista che ha provato a far valere i propri diritti rimuovendo un illecito e fastidioso costume, a un certo punto ha rischiato il linciaggio. O dobbiamo chiamarlo "processo breve"?

America 2012

Ce la farà Obama ad essere, dimostrando di esserlo, diverso da chi l'ha preceduto? Il 2012, data delle nuove elezioni, ce lo dirà con certezza.

Intanto farsi un'idea da questo lato dell'Oceano è difficile... Giornali, televisioni, il web ci ingolfano di notizie.

Vale la pena allora seguire la vicenda attraverso un piccolo blog indipendente ma assai qualificato.

Il Condor lo userà anche per tenere aggiornati i suoi lettori

Di quanto socialismo ha bisogno il Pd?

La cultura politica del Pd – e quella dei suoi progenitori, Ds e Margherita – è stata talmente pasticciata da render difficile rappresentarla in una direzione soltanto; la pratica, poi, è stata molto diversa dalle raffigurazioni. Il politicismo è stato imperante. Questo vuol dire che sono apparse le più svariate suggestioni culturali, talvolta mischiate nella stessa persona: l’innamoramento del ruolo del mercato con inclinazione a un rapporto privilegiato col sindacato, la convinzione di essere un partito «del popolo» con la subalternità e contiguità alle élite finanziarie, l’inclinazione verso l’assistenzialismo con le istanze estreme di liberalizzazione e antistatalismo. Stratificazioni del passato e suggestioni più recenti si sono sovrapposte disordinatamente. La somma non porta a tacciare le formazioni citate di fondamentalismo neoliberale o di simpatie thatcheriane, perché sarebbe una forzatura palese, pur ricordando che il leitmotiv di battute sommesse che circolavano all’interno affermava che in Italia non fos- simo stati così fortunati da avere avuto una Thatcher.


Detto questo, il giudizio non può ignorare che le suggestioni culturali siano andate gerarchizzandosi. Difficile non percepire che la sinistra «riformista» (da ora in poi «sinistra ») sia stata sempre più attratta da narrazioni, rappresentazioni, punti di vista, che assorbivano il pensiero dominante e stabilivano un consenso di sorta, per quanto spesso incoerente, intorno a un’agenda imperniata su soluzioni liberali per i problemi dell’Italia. Il tutto accompagnato da una perdita progressiva di orizzonte critico verso i caratteri che il sistema produttivo manifestava e da assorbimento del paradigma individualista, che fa da pendant a una concezione economica liberale del mondo.


D’altra parte, avendo deposto qualsiasi velleità di elaborazione (non dalla nascita del Pd ma da molto prima: basti pensare ai cinque anni buttati letteralmente via durante l’opposizione al governo Berlusconi 2001-06), avendo concepito con grande superficialità e piatta ritualità la funzione politi- ca, azzerato la discussione interna e dissipato capitali intellettuali e umani, era inevitabile che l’area di centrosinistra assorbisse abbondantemente ciò che trovava pronto per l’uso sul mercato delle idee, divenendo progressivamente priva di autonomia culturale. La cultura politica di un partito è l’alveo nel quale prendono vita il progetto e il programma: la grave crisi sul piano culturale («chi siamo») ha reso indefinito tutto il resto, a partire dalla proposta politica e di governo («dove vogliamo andare»).


Non ho dubbi, tuttavia, che l’acquisizione dei principi del mercato sia stata un’utile «alfabetizzazione» per il centrosinistra (rubo l’espressione a una ispirata lettera di Dario Di Vico di commento al mio ultimo libro). Gli elementi che contribuivano a diffonderla avevano una loro forza, a partire dalla necessità di un cambio di criteri nella conduzione economica dell’Italia, che la crisi della Prima Repubblica aveva reso improcrastinabile.


Da un lato, la crisi fiscale dello Stato rendeva inevitabile un sostanziale smantellamento della proprietà pubblica e dei monopoli pubblici, affidato nella fase iniziale a un rigoroso e prestigioso guardiano dei conti, tuttavia privo di qualsiasi gusto per l’ingegneria dello sviluppo. Era difficile anche non rispondere a una domanda crescente dal mondo produttivo per l’abbattimento della macchina burocratica e delle inefficienze, le cui responsabilità venivano rinvenute nel settore pubblico e addebitate a uno Stato oberato di compiti, paternalista e invasivo delle scelte private. Nel pensiero compiuto delle élite migliori di questa area (e in quello di tanti intellettuali e studiosi che dall’esterno hanno avuto ascolto e influenza) l’affidamento al mercato dell’assetto di molti settori era (non senza argomenti validi) la via per rendere più egalitaria, più efficiente e universalistica la fruizione dei servizi. Per altri, era il mezzo per mettere in movimento la società italiana, bloccata da veti, corporativismi e rendite di posizione, e congiuntamente un giudizio sulle qualità scadenti della classe politica, considerata incapace di condurre in modo illuministico l’intervento nell’economia (incluso il giudizio sulla classe politica espressa dal centrosinistra).


Ma, al di sopra di tutto, gli esiti della globalizzazione e dell’imperiosa espansione dei mercati – che nel giro di pochi anni creavano uno degli eventi più straordinari della storia di sempre, per diffusione, continuità e intensità della crescita, per l’uscita di miliardi di persone dal livello di povertà e per il rivolgimento epocale della geopolitica mondiale – sollecitavano all’adozione di un apparato di pensiero più consono ai tempi e alla storia, basato sulla convinzione che il nuovo modo di strutturarsi del capitalismo mondiale potesse essere governato e corretto (specie nelle sue conseguenze all’interno) anche con il concorso di una sinistra che ne avesse assorbito la lezione. Era un processo comune alla sinistra europea. Blair aveva dato un esempio – elettoralmente vincente – di rielaborazione in senso liberale della tradizione socialista, capace di diventare un catalizzatore per molta parte della sinistra europea e italiana. Ma, soprattutto, il centro della globalizzazione, gli Stati Uniti, mostrava una vitalità straordinaria del suo sistema produttivo, diventando un esempio guida, dal quale si ricavavano a scatola chiusa (in Europa e in Italia) gli insegnamenti delle virtù insite nella flessibilità dei mercati, nello Stato leggero, nella competizione e libertà di azione degli agenti, e le si riproponevano all’interno.


A fronte di questo contesto e scontando la forza delle ragioni oggettive per un ammodernamento del pensiero della sinistra, la preservazione di una identità che non snaturasse un sentire più vicino alla sua tradizione avrebbe richiesto una elevata capacità di elaborazione, che separasse le soluzioni liberali – spesso e volentieri utili, ma sempre da valutare nel merito dell’efficacia economica e sociale rispetto alle alternative – dall’orizzonte di riferimento posto dalla cultura economica liberale, assunta come cultura propria. Avrebbe richiesto che fosse rimasto vigile il senso critico verso i connotati che il mondo andava assumendo, separando, con un distacco marcato dal pensiero unico, gli aspetti progressivi e rivoluzionari della globalizzazione dalle sue conseguenze negative, di disordine mondiale e di mutazione, all’interno, di molti perni dell’ordinamento sociale (distribuzione del reddito, insicurezza lavorativa e produttiva, dequalificazione di larghi strati di popolazione, sperequazioni di potere, e quant’altro). Avrebbe richiesto, ancora, che il giusto riconoscimento delle molle individuali e della piena realizzazione della persona fosse disgiunto dai connotati di una cultura di massa, sempre più dominata dal senso individuale della vita e da una richiesta di libertà individuale disgiunta dal significato sociale della stessa (di cui dirò), che in politica aveva come corrispettivo il passaggio alla centralità del consumatore. Questa mancanza di nette distinzioni, che avrebbero richiesto ben altro spessore analitico e capacità di pensiero di quello che le formazioni citate potevano mettere in campo, ha consentito pochi argini alla penetrazione di visioni estranee alla tradizione di sinistra. L’humus culturale in quest’area, se pur non ha riprodotto per intero il paradigma liberale – essendo rimasto disordinato, contaminato e privo di una elaborazione compiuta e consapevole –, ha tuttavia portato all’affermarsi di una sorta di antistatalismo di principio che finiva per rendere a senso unico le soluzioni adombrate.


Nel corpo del pensiero, lo Stato spariva come attore responsabile dei processi con finalità sue proprie, salvo quelle (al meglio) di preparare il gioco degli agenti privati e di rendere efficienti i mercati. Il che non offuscava solo il ruolo dell’attore pubblico nell’arena economica e sociale, ma perfino la consapevolezza che fosse necessario un baricentro (di coordinamento centralizzato, per non parlare di governance), là dove le parole d’ordine riguardavano: «autonomia» e «decentramento» (delle istituzioni pubbliche, quanto delle politiche di sviluppo). Le realizzazioni, le proposte o le reazioni a ciò che andava succedendo sono testimoni a pari titolo di questi orientamenti. I


n Italia si sono verificati senza forte voce della sinistra una allarmante divaricazione dei redditi e un indebolimento delle classi medie. Un campionario di soluzioni che per fede liberista sono state varate, col risultato di mettere in svantaggio i nostri produttori rispetto ai competitori esteri che hanno beneficiato di uno Stato più accorto, lo si trova in G. Rossi, I disaiuti di Stato. Ma vorrei sottolineare anche che si è prodotta una competizione di piccoli operatori dell’«ultimo miglio » nel settore delle grandi utilities, trascurando la dimensione europea dei mercati e senza alcuna politica sulle reti, col risultato, in nome del consumatore, di trovare la grande impresa del settore telefonico paralizzata dai debiti e incapace di essere un player internazionale (non solo per le note vicende), o l’impresa elettrica smembrata e capace di espandersi e competere internazionalmente solo indebitandosi. S


ono solo esempi casuali tra i possibili, di cui non penso che le future generazioni ci debbano essere grate. I leitmotiv delle «riforme di struttura », dell’«Agenda di Lisbona» ecc., al di là della retorica (e di indirizzi talvolta centrati), hanno sempre nascosto in sé opzioni verso gli approdi salvifici dell’economia dell’offerta (che, al fondo, ipotizza esiti produttivistici da incentivi che rendono pienamente funzionanti i mercati, incluso quello del lavoro); un riferimento che è diventato un moloch per tutti i Paesi europei (Italia inclusa), quando l’Europa tutta soffriva di un problema macroscopico di governo della domanda globale; domanda in carenza della quale nessuna economia dell’offerta può scatenare una crescita autosostenuta (abbiamo preso sul serio in Europa la predicazione del Washington consensus, quando a Washington la pratica non dico che lo ignorasse, ma quasi).


Certo, non era la sinistra italiana in grado di modificare da sola lo stato delle cose, ma avrebbe potuto fare del problema della domanda una bandiera politica e culturale da agitare in funzione pedagogica e di controcultura, contestando le illusioni ottiche che avvaloravano l’idea che alla base della crescita statunitense avesse effettivamente il ruolo preminente l’economia dell’offerta. Ma come poteva la sinistra italiana avere una sua visione alternativa, se quello era il consensus, se i media all’unanimità diffondevano gli stessi messaggi e il partito (i partiti) aveva (avevano) perso la capacità di pensare in proprio? Certo, nel quadro che ha portato progressivamente a un superamento della vecchia cultura socialdemocratica, all’allentamento del legame con le organizzazioni dei lavoratori, all’assunzione del cittadino generico (nella sua veste di utente e di consumatore) a riferimento dell’azione politica vi è da un lato la metamorfosi, se non la distruzione, dei vecchi insediamenti sociali della sinistra democratica, dovuta al rimbalzo interno della pressione del nuovo capitalismo mondiale. Vi è dall’altro la perdita di strumenti subita da uno Stato nazionale inserito nei processi globalizzati.


Che la socialdemocrazia fosse figlia di una composizione sociale che non esiste più, è stato detto e scritto troppe volte per sostarvi. Ma, partendo da qui e elaborando su questa evoluzione della società, vi sarebbe stata la necessità per un partito «pensante» di ridefinire (spesso anche ribadire) le nozioni di bene pubblico idonee ai perseguimenti della sinistra (identificando in questo percorso le convergenze con pezzi di società). Sarebbe stato necessario ripensare le modalità d’essere di un partito portato dall’evoluzione delle cose a presentarsi più come sintesi della società che come espressione di insediamenti sociali. Sarebbe occorsa, quindi, una comprensione profonda della società che mettesse in grado di capire su quali sintesi ridefinire l’offerta politica. Includendo in ciò l’obiettivo – oltre a quello di andare controcorrente rispetto allo sfrangiamento del tessuto sociale e alla dispersione dei «lavori» (sottolineo il plurale) – di disarticolare, in un’offerta politica, il nucleo chiave del blocco di consenso dell’avversario, cioè un corpo sociale centrato sulla società produttiva diffusa e sul lavoro autonomo. In tutto ciò, il liberalismo economico, per quel che ha informato l’orizzonte politico e culturale, ha avuto e ha il sapore soprattutto di una scorciatoia astratta rispetto alla complessità del Paese e dei compiti. La giustizia sociale è qualcosa di più composito del quadrinomio merito-regole-opportunità- competizione, e temo che lo siano anche le ragioni della crescita. E così, le ragioni della coesione.


Al di là dei temi di merito, da giudicare – appunto – nel merito, ciò che è penetrato a sinistra di quell’impostazione è la parte più semplificatrice: il suo riferimento non ad una società reale, fatta di aggregazioni, reti, relazioni, centrali che orientano il giudizio dei singoli, e, dal punto di vista sociale, di condizioni differenti di partenza, ma a una società di individui atomizzati, nella quale il consenso si costruisce sul piano dei giudizi razionali (secondo il canone di razionalità di chi propugna le soluzioni). Il punto non è nelle questioni di liberalizzazioni «sì» e «no» (ben vengano, se utili), mercato «sì» e «no» (altrettanto, ben venga). È nell’abdicazione della politica da compiti di elaborazione di un assetto della società. Bastava lasciarlo al mercato. (Penso poi che sia un tutt’uno con questa lettura atomizzata il cammino verso un vero e proprio sradicamento del Pd dal suo stesso popolo e il suo sentire – partito leggero, partitomovimento, partito culturalmente amorfo, partito del leader, partito mediatico ecc.: tutte scorciatoie parallele.)


Una cultura che tenga conto di questa complessità, induca a saper entrare nel merito degli interessi, mediandoli e portandoli verso un traguardo collettivo condiviso, insista sui collanti, più che sulla competizione, e mantenga la bandiera della giustizia sociale non implica la preservazione di un apparato di riferimenti nella sua integrità socialdemocratico. In una società variegata come quella che si è andata formando, con classi che si sfumano e hanno perso il significato tradizionale, una identità centrata sul «noi» e «loro» (essenzialmente le forze del lavoro da un lato e la borghesia del capitale e della finanza dall’altro) sarebbe incomprensibile, politicamente e analiticamente. Un partito squisitamente «di classe » connotato dal rapporto speciale con i sindacati, le leghe, e i cooperatori ecc. si taglierebbe fuori da gran parte della società. Se ci sono convergenze, bene, ma ognuno è in grado di rappresentarsi da solo e un partito politico deve guardare al bene pubblico, non ai suoi «azionisti».


Detto questo, due lasciti della socialdemocrazia sono, tuttavia, imprescindibile patrimonio per un partito di sinistra. Da un lato, l’idea che la società va costruita attraverso le riforme e la partecipazione, governandola per spezzoni sociali e trovando il modo di raggiungere il compromesso possibile – a volte tra principi contraddittori (ad esempio crescita- eguaglianza, innovazione protezione) – mantenendone la coesione, in un equilibrio difficile di regolazione, intervento, salvaguardia dei diritti sociali, ragioni del mercato e dell’innovazione, giustizia distributiva e creazione di opportunità. E dall’altro, l’accento comunitario e solidaristico del suo humus culturale, che parte da una rappresentazione della totalità sociale diversa dalla somma dei singoli e fa sua la salvaguardia e la sollecitazione delle ragioni delle identità sociali e di gruppo, mediate e cementate con le ragioni di una identità collettiva e con quelle degli outsider.


Questo penso che si sia perso come pezzo fondante nella cultura della sinistra, con tutti i suoi corollari. In primo luogo, il rischio di non saper dare un’impronta a un gigantesco mutamento che il paradigma del capitalismo sta avendo dopo la crisi. (Il Pd è il più assente nei partiti della sinistra europea – che pure non brillano – nella riflessione a proposito.) Sono opzioni per le quali lo Stato rimane nodale. Non è un caso che la sinistra si sia trovata spiazzata quando la nuova destra (in Italia come in Europa) l’ha sfidata sul terreno dell’uso dei poteri pubblici e la crisi internazionale lo ha imposto.


Certo, lo Stato nazionale non ha più le leve decisionali e la presa sull’economia che aveva quando si sono costruite le fortune socialdemocratiche. Ma, primo, esso è stato dato per morto prematuramente e, secondo, i socialisti (europei) sono e sarebbero stati nella migliore posizione di demandare le prerogative a poteri sovranazionali, se avessero puntato (o puntassero) in questa direzione in coerenza con la loro stessa cultura (e se Blair e il laburismo britannico non ne fossero stati i principali avversari).


Volenti o nolenti, le fortune del liberalismo economico (di destra e di sinistra) devono fare i conti con una competizione politica che ritorna su un terreno da dove sembrava essere stata espunta e su cui tornerà a svolgersi in futuro: il migliore utilizzo dei poteri di scelta discrezionale dei governi ai fini di tenuta e sviluppo della società e dell’economia. Se quella discrezionalità comporta pericoli evidenti (specie dove la classe politica è inadeguata), questi non vanno enfatizzati, perché avverrà anche che chi userà male la discrezione sarà punito dagli elettori; chi la userà intelligentemente e con efficacia (quindi nei giusti gangli e con moderazione) premiato.


Sarà premiato chi saprà far coincidere le ragioni della sicurezza (in senso lato sociale, ambientale, di prospettive del futuro, personale) con quelle della crescita economica (senza nessuna pretesa che all’una presieda l’apparato socialdemocratico e all’altra quello liberale, perché le possibilità sono mischiate). Quello dell’utilizzo dei poteri pubblici è un terreno inedito di competizione su cui insistono, per una «anomalia» della storia, una nuova destra (più pronta a percorrerlo) e una sinistra moderata impreparata (o, nelle sue frange estreme, incline a rappresentare solo i perdenti della globalizzazione). Sfida inedita, perché la nuova destra è in versione populista, niente affatto avversa allo Stato sociale, comunitaria (anche se in senso regressivo), culturalmente più definita (anche se con punte di reazionarismo). Tutto riporta al terreno culturale, e di riflesso politico.


Sta di fatto che la nuova destra è apparsa più credibile verso chi chiedeva che ci fosse un governo del modo in cui la globalizzazione penetrava nel nostro Paese (ma la questione è simile in molte parti d’Europa) e protettiva verso chi è minacciato da cambiamenti troppo rapidi del contesto economico e sociale o si sente insicuro se lasciato a cavarsela da solo, o chiede solo tempo per adattarsi. Poco importa che la sua offerta fosse e sia inadeguata, illusoria e inefficace (anche se non del tutto), nonché carente nelle nuove opportunità. Il punto non è questo, ma nel fatto che mentre la sua cultura, forgiatasi nella critica al neoliberismo, ha consentito ad essa di intercettare l’insicurezza che si diffondeva nel corpo sociale e nell’economia, la sinistra – proiettata nella spinta progressiva della nuova fase storica del capitalismo, sempre più priva di antenne nella società e con l’anatema verso chi osasse parlare di Stato – non l’ha saputa cogliere o ha risposto (anche se più sul piano dell’agitazione che della pratica) con le «riforme di struttura » e formule di competizione.


Ha vinto non inaspettatamente la destra. E così, come in Italia, in altre parti d’Europa. È evocativa l’espressione di Di Vico quando rileva che «l’individuo moderno ha paura di restare solo in una stanza con il mercato, vuole che ci sia qualcuno con lui. La comunità, il sindacato ecc. Così come nessuno vuole schumpeterianamente morire ed immolarsi alla modernizzazione». Ma se questa è una giusta considerazione per capire in quale direzione e con quali supporti integrare l’appropriazione di visioni liberali (come egli sostiene e condivido), lo è meno se dovesse implicare che ad essa bisogna fermarsi senza «passare il Rubicone» del ritorno dello Stato.


La comunità, il sindacato, l’associazione possono, invero, «accompagnare per mano» i singoli se ricevono ruolo istituzionale (a meno di immaginare una società conflittuale), se hanno deleghe di autogoverno, se hanno dietro uno Stato che esprima una funzione di utilità sociale che non mortifichi le ragioni specifiche dei vari «noi» e che sappia individuare con chiarezza quali sono i traguardi di raccordo collettivi, operando per raggiungerli. In conclusione, sia in economia che in campo sociale, con l’avvento della nuova destra, oggi l’appello a una scelta di campo non basta nella contesa politica.


È significativo che la sinistra non sia neppure riuscita a rimanere proprietaria del «marchio» dell’ «economia sociale di mercato», che è il vessillo della sua storia. Il partito che la rappresenta deve convincere di saper azionare meglio di altri le leve di governo e essere riconosciuto come il miglior collante della società, in un progetto che valga per l’intero corpo sociale. Ma deve anche avere l’ambizione collaterale di conquistare gli animi e guadagnarsi prestigio, orientare l’humus culturale della società e quindi essere un polo di attrazione culturale e umana, dal quale, senza implicare disconoscimento della piena realizzazione delle capacità di ciascuno, emani un’offerta di senso che indirizzi i traguardi individuali dei singoli verso una sintesi superiore. La cultura di massa che si diffonde spontaneamente nelle società occidentali individualizzate (specie nelle periferie, nei ceti popolari, nel ceto medio-basso meno acculturato e professionalizzato, negli ambiti giovanili) è opposta e in un certo senso inquietante.


È una cultura di massa sempre più ripiegata sull’individuo, che esige spazi di libertà sempre più ampi, ma privi di limiti e responsabilità e dentro un senso tutto individuale della vita; che si ispira a principi edonistici staccati da un principio di realismo, che anela a grandi scorciatoie individuali al posto dell’impegno e della costruzione quotidiana. Ne nasce insofferenza, disincanto e un immaginario in cui i sogni tendono a essere confusi con la realtà (un’interessante analisi di questa cultura è in M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecnonichilista, Feltrinelli, 2009).


La destra, mentre è in grado di captare una domanda di protezione e di governo, è allo stesso tempo a suo agio con questo humus e ne beneficia (se non ne è anche artefice), in un puzzle in cui non è chiaro leggere le connessioni biunivoche; un puzzle difficile quindi da decifrare in una chiave lineare. Forse una può essere quella cui accenna Remo Bodei, dove afferma che dall’emorragia di senso «scaturisce la richiesta di certezze assolute, cercate spesso più nelle religioni e nei governi forti che non nella pratica e nel rafforzamento dei principi ispiratori della democrazia » (Assalto alla democrazia, «Il Sole-24 Ore», 5.4.2009). Ma certo è che quell’humus è tutt’uno con l’affermarsi di un rapporto passivo, di insofferenza o indifferenza verso la politica e l’ordine istituzionale; in virtù del quale masse di individui si riconoscono solo in un legame diretto con governanti demiurghi e paternalistici che dichiarano di agire in loro nome, in una acquiescenza di fatto che lascia a questi ultimi le mani libere.


Un processo che svuota la democrazia dei connotati suoi propri e della partecipazione e controllo. In questa trasformazione del tessuto antropologico della società, il partito del centrosinistra non può non coltivare e difendere l’ambizione a costituire un polo di resistenza culturale e di proposizione alternativa di una visione del mondo e delle responsabilità sociali. Senza una identità precisa che lo renda elemento di una controcultura di massa, esso non acquisterà quelle capacità di attrazione, di disvelamento critico, di idealità e utopismo, il cui potenziale diffusivo trasmetta un umanesimo diverso e processi solidi di democrazia. Non potrà non fondare la sua identità – come detto – in una cultura solidaristica e comunitaria, che cerchi le ragioni dello stare insieme.


Cultura che è poi parte della sua storia e del sentire dei suoi militanti, ai quali dovrà ricongiungersi. Una sinistra, invece, con una cultura indefinita e affastellata e una identità amorfa, come quella che ha avuto il Pd nella sua breve storia, non riuscirà mai ad essere quel polo alternativo, di azione e idee, con forza di attrazione e capacità egemonica e pedagogica, capace di porre un argine al diffondersi di modelli culturali iperindividualistici. Per quanto la sinistra non possa non appropriarsi largamente dell’approccio liberale (anche in economia), sarebbe disastroso se in nome del realismo e di una modernità male intesa, dal cedimento al presente, dalla cattiva analisi e da debolezza verso ciò che è trendy fosse portata ad allontanarsi dall’ambito del socialismo e non trovasse il coraggio di ridare un significato a questo termine che sia realisticamente adatto all’oggi.


di Salvatore Biasco, uscito nel n. 6/2009 de Il Mulino

Dieci anni fa moriva Craxi. Un ricordo giudiziario

In questo clima di schifosa rimozione collettiva delle responsabilità individuali (e collettive), usiamo le parole di un magistrato di allora, che ha svolto il suo ruolo con onestà e determinazione, come troppo pochi fanno nella pubblica amministrazione.

''Io ero li' che gli chiedevo conto delle appropriazioni illecite dei partiti, e lui rispondeva: 'Era un sistema, tutti sapevano'. Ma a un magistrato questo non basta''. Sono passati sedici anni da quel giorno in cui, nell'aula del tribunale di Milano, Bettino Craxi si ritrovo' seduto sul banco degli imputati per rispondere alle domande del magistrato ripreso dalle telecamere di Rai3.

A distanza di tutto questo tempo, l'accusatore non ha cambiato idea sull'ex imputato: ''Craxi e' una persona che, ricoprendo cariche altissime, ha utilizzato il suo ruolo per interessi totalmente personali. E' uno dei promotori di Tangentopoli. Tutto bisogna fare meno che prenderlo a modello per le future generazioni''.

''Craxi anche sotto interrogatorio, cerco' sempre di portare avanti una linea di autoassoluzione: tutti colpevoli, nessuno colpevole. In qualunque modo gli venivano poste le domande egli allargava la riposta per tirare dentro il sistema, gli altri, e quindi tentava di 'fondersi' e confondersi con essi''. Ma il punto cruciale e' che Craxi, nonostante il suo piano difensivo, messo di fronte ai fatti ammise in pieno tutte le sue responsabilita': ''Io non so se lui, e fino a che punto, da politico, abbia avuto ben chiaro al momento il senso delle sue parole e le responsabilita' che ne conseguivano: ma certamente, quel giorno ha confessato''.

La posizione di Craxi era ben diversa da quella degli altri politici solo sfiorati dalle inchieste: ''La differenza tra lui e gli altri verso i quali si e' trovata una sola responsabilita' politica - spiega - e' che nei suoi confronti sono stati trovati riscontri di grassazioni e approfittamenti personali. Identificammo tre conti correnti all'estero. Provammo sia la provenienza illecita dei soldi, sia l'utilizzo personale e illecito. Quei soldi sono stati anche da lui utilizzati per fini personali e non per fini di partito. E' un falso storico raccontare le cose come se questi fatti non fossero accaduti''. Per questo non ha senso parlare di un Craxi esiliato dall'Italia e costretto a morire in terra straniera: ''Craxi non poteva accusarci perche' e' lui che se ne e' andato non noi che lo abbiamo mandato in esilio''.

''Non condivido e deploro che, nel tentativo di dare una valutazione politica al personaggio Craxi, si vogliano cancellare le sue responsabilita' giudiziarie. Nella sua globalita' Craxi e' una persona che, ricoprendo cariche altissime, ha utilizzato il suo ruolo per interessi totalmente personali''.

Chi parla, se non lo aveste capito, è Antonio Di Pietro, che politicamente spesso non ci sembra mirabile, ma che ha provato - come pochi attuali politici e tanti cittadini onesti - a fare al meglio il suo dovere quando ne aveva le responsabilità e l'occasione. E in questo paese, si rischia di diventare eroi (o capi-popolo) anche solo per questo...

Nella Fiat globale l'Italia conta meno

C’era una volta la Fiat, Fabbrica italiana automobili Torino. Ora c’è Fiat Group. E non è un piccolo cambiamento. Perché non si tratta solo di uno slittamento linguistico, dal latino (fiat = si faccia), che ben si attagliava allo stile floreale diffuso nei paesi industriali all’inizio del ‘900, all’inglese, inteso come veicolo comunicativo privilegiato sui mercati globali. Né si tratta solo dell’ennesimo restyling di un logo di cui è stata disegnata una versione graficamente spersonalizzata, e perciò, almeno nelle intenzioni, più universale. In realtà, il cambiamento di nome, e di marchio, è il segnale di un mutamento, allo stesso tempo, più profondo e più ampio.

La Fiat non pensa più a se stessa come alla maggiore impresa metalmeccanica italiana. La Fiat, ormai, ha scelto di essere una delle maggiori imprese multinazionali dell’auto. Certo, una multinazionale basata in Italia. Ma un’impresa italiana è una cosa, una multinazionale il cui quartier generale è collocato in Italia è un’altra cosa. Perché nel primo caso, anche se l’impresa in questione non agisce solo all’interno del mercato domestico, e si proietta verso l’esterno, il suo gruppo dirigente continua a pensarsi nei termini tradizionali: noi siamo qui e dobbiamo penetrare anche altrove. Nel secondo caso, la differenza tra il qui e l’altrove viene cancellata. Il mercato mondiale diventa uno scenario unico.

A guardar bene, che le cose stessero così – se non ancora nella realtà, almeno nella testa di Sergio Marchionne – lo si poteva capire già a fine 2008, nell’intervista pubblicata dal periodico specializzato Automotive News Europe. Intervista in cui l’amministratore delegato della Fiat affermava, fra l’altro, che, oltre la crisi, nel mondo ci sarebbe stato posto solo per sei grandi gruppi produttori di autovetture. E che, per sopravvivere, la Fiat doveva diventare uno di quei gruppi, raddoppiando, come minimo, la sua produzione annua a livello globale. Detto fatto, il 2009 è l’anno della proiezione globale della Fiat che, profittando della crisi, sbarca negli Usa e si compra la Chrysler.

Il logo marchio Fiat Group che, il 22 dicembre 2009, siglava discretamente i grafici della presentazione in power point con cui Marchionne ha illustrato a Palazzo Chigi il nuovo piano industriale sfornato dal Lingotto, aveva quindi forse un valore esplicativo maggiore delle parole dello stesso Marchionne circa le sue intenzioni programmatiche. Fiat Group non è solo il nuovo nome della vecchia casa torinese: è la sintesi della volontà di sopravvivenza di una multinazionale che spazia dallo stabilimento di Betim, in Brasile, a quello di Tichy, in Polonia, e tiene insieme la serba Zastava con l’americana Chrysler. E mantiene la plancia di comando a Torino.

Sembrerebbero buone notizie. Ma se, dall’altra parte dell’Atlantico, vigeva un tempo l’assioma secondo cui ciò che è buono per la General Motors è buono per gli Stati Uniti, oggi è difficile immaginare una massima analoga secondo cui ciò che è buono per la Fiat sarebbe buono anche per l’Italia.

Nello stesso incontro del 22 dicembre, infatti, Marchionne ha dichiarato a Governo, Regioni e sindacati che, nella Fiat globalizzata, crisi a parte, non c’è più posto per lo stabilimento auto di Termini Imerese. Mentre per quello di Pomigliano d’Arco si prospettano mesi e mesi di cassa integrazione e meno posti di lavoro. I sindacati non sembrano propensi ad accettare un ridimensionamento produttivo, e occupazionale, della Fiat nel nostro paese. Tantomeno se, con un’evidente inversione di tendenza, tale ridimensionamento dovesse partire dal Sud.

dal sito di Rassegna sindacale

Soldi alle imprese romane: qualche domanda

Il Comune di Roma ha assegnato quasi 7 milioni di euro alle imprese operanti in periferia. La trasparenza di tale gestione è però alquanto dubbia.

Di tale assegnazione di fondi, infatti, non si conoscono criteri, non è dato sapere come era composta la commissione, dei cui lavori non sono pubblicati i verbali.

E' lecito, Sindaco Alemanno, chiedere maggiore trasparenza?

Restando in fiduciosa attesa, daremo informazione tempestiva su questo blog delle risposte che (è auspicabile) riceveremo.

Bullismo dei giornali

Sono anni ormai che si parla di emergenza bullismo, allarme bullismo, gangsterismo giovanile ecc.

Poichè viene spontaneo diffidare dei toni e dei contenuti dei media, in particolare in Italia, ho sempre pensato che fosse uno dei tanti modi per riempire palinsesti e pagine (e forse teste) vuote.

Ora è uscita un'inchiesta dell'Anticrimine, che ha sottoposto un questionario a 1600 ragazzi tra i 12 e i 15 anni. Ne esce fuori un quadro aggiacchiante: il 74% delle vittime non denucia le violenze, mentre solo il 24% dei bulli si pente.

Ma ancora fatico a capire. Mi manca l'idea di base. Cosa è il bullismo secondo i giornali italiani? Scopriamo così che di quel 54% dei ragazzi che dichiara di aver assistito ad episodi di bullismo, il 55% è stato testimone di "scritte sui muri". E ciò in una città come Roma...

Ma vadaviailcul!

Il declino Usa non tocca le banche

Trentotto milioni di americani, un cittadino su otto, sono in condizioni di povertà tali da ottenere i food stamps, un tesserino che permette di fare acquisti di cibi preconfezionati nei supermercati, per un valore medio di 133 dollari al mese a testa. Se consideriamo i bambini, la percentuale sale a un bambino su quattro: siamo a livelli da paese del terzo mondo.

Sei di questi trentotto milioni (il 2 per cento degli americani) vivono in famiglie senza alcuna entrata monetaria - nè redditi da lavoro, nè trasferimenti pubblici, pensioni, indennità di disoccupazione o altro - a parte i food stamps.

Ogni giorno 20 mila nuovi americani ne fanno richiesta; negli ultimi due anni, per effetto della crisi, gli utilizzatori sono aumentati del 50 per cento; il numero di chi non ha altri redditi è raddoppiato in Florida e, nella contea di Detroit, è arrivato al 4 per cento della popolazione, secondo un'inchiesta del New York Times del 3 gennaio scorso.

Nel 2010 il governo federale spenderà 60 miliardi di dollari - meno del dieci per cento degli stanziamenti straordinari per crisi finanziaria - per questo programma, che rappresenta l'unico strumento per affrontare le situazioni di povertà in un sistema di welfare ridotto all'osso.
Ora reggetevi forte: una torta di uguali dimensioni sta per essere divisa non tra i 38 milioni di americani più poveri, ma tra centomila banchieri che saranno pagati per il 2009 mezzo milione di dollari a testa in media. Goldman Sachs pagherà ai suoi 28 mila dipendenti in media 595 mila dollari, in tutto 16,7 miliardi di dollari: un premio per uno degli anni con i più alti profitti della sua storia. JPMorgan darà ai suoi 25 mila addetti alla banca d'investimento 463 mila dollari in media, 11,6 milardi di dollari complessivi, secondo il New York Times del 10 gennaio.

Nell'insieme, le cinque grandi banche americane - Citigroup, Bank of America, Goldman Sachs, JPMorgan Chase e Morgan Stanley - nei primi nove mesi del 2009 hanno accantonato 90 miliardi di dollari per pagare stipendi e "premi aziendali" (i bonus) a qualche centinaio di migliaia di dipendenti. Tutte e cinque le banche hanno ricevuto dal governo enormi crediti di emergenza nella crisi del 2008; di fronte alle proteste di opinione pubblica e Congresso, ci sono stati tentativi di porre vincoli ai pagamenti stratosferici, e le banche hanno reagito rimborsando al più presto i prestiti ottenuti per essere nuovamente libere di distribuirsi compensi milionari. Alcuni top manager riceveranno decine di milioni di dollari, mentre i "poveri" impiegati avranno mille volte di meno.

E' un livello di disparità che si è affermato durante il "boom" della new economy alla fine degli anni novanta. Nel 1998 Sanford Weill, il capo di Citigroup, riceveva compensi per 167 milioni di dollari, 4500 volte il salario di un lavoratore non qualificato della stessa azienda. Ma - come denunciava dieci anni fa Seymour Melman nel suo libro After Capitalism - è alla Walt Disney che le disparità superavano di gran lunga quelle tra Paperone e i Bassotti: nel 1998 il presidente della società Michael Eisner venne pagato 575 milioni di dollari, cioè 15.500 volte il salario lordo di un lavoratore dell'azienda.

Uno dei problemi americani è che disuguaglianze di questo tipo non sono più casi eccezionali, limitate a Wall street o Paperopoli, ma sono diffuse in tutta l'economia. Nel 2007 gli amministratori delegati delle 365 maggiori aziende Usa sono stati pagati 500 volte di più del dipendente medio e per le imprese della graduatoria Fortune 500 il divario di retribuzioni è cresciuto di dieci volte tra il 1980 e il 2007. Nell'insieme dell'economia, il rapporto tra quanto guadagna il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero degli americani è cresciuto del 40 per cento rispetto a 1975, con balzi particolarmente forti durante le presidenze di Bush padre e Bush figlio. Questi dati americani, messi a confronto con gli altri paesi, vengono dall'importante libro di Richard Wilkinson e Kate Pickett La misura dell'anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, appena pubblicato in Italia da Feltrinelli. La novità del volume è che mostra in modo convincente che, a differenza della retorica liberale, alte disuguaglianze non stimolano la crescita economica e hanno gravi conseguenze in termini di minor benessere, maggiori problemi sociali - emarginazione, malattie, criminalità, dipendenze e disagio mentale - e minor durata della vita.

Le cattive notizie per l'economia americana, nel primo decennio del duemila, hanno riguardato la grandissima parte dei cittadini. Non c'è stato alcun aumento dei posti di lavoro e quasi tutta la crescita del reddito è finita nelle mani del 10 per cento delle famiglie più ricche (con un'ulteriore concentrazione nell'1 per cento di superricchi). Come mostrano le analisi di Jeff Madrick della New School University, dal 1989 i salari reali (mediani) dei lavoratori maschi sono rimasti immutati per i laureati e sono diminuiti notevolmente per chi ha un'istruzione secondaria, mentre le donne hanno recuperato in parte il divario salariale nei confronti degli uomini. Il salario minimo in termini reali è fermo ai livelli che aveva negli anni sessanta.

La crisi finanziaria è arrivata su un'economia reale segnata da un lungo declino delle capacità produttive e da una forte dipendenza dall'estero: l'eccesso delle importazioni sulle esportazioni è arrivato al 5 per cento del Pil (la Germania ha un avanzo del 6,4 per cento) e una quota crescente dell'enorme debito Usa viene finanziato dall'estero. I conti pubblici sono in profondo rosso, anche per una spesa militare che resta pari alla metà di quanto tutto il mondo spende per le armi, e si sono aggravati con le misure prese di fronte alla crisi della finanza.

Se la politica Usa ha prontamente salvato le banche in difficoltà, non è andata così per il dieci per cento degli americani che ora sono senza lavoro: a documentare gli effetti della crisi c'è un nuovo rapporto, Battered by the storm, pubblicato a dicembre dall' Institute for policy studies e altre organizzazioni progressiste (tra gli autori ci sono John Cavanagh e Barbara Ehrenreich). Negli Usa solo il 57 per cento dei senza lavoro ha un'indennità di disoccupazione, che ammonta a metà del salario precedente, e molti hanno perso il diritto all'assistenza sanitaria. Il principale programma federale di sostegno ai redditi, il Temporary Assistance for Needy Families, ha meno del 30 per cento delle risorse che sarebbero necessarie a portare sopra la soglia della povertà i 50 milioni di americani che sono ora al di sotto. Buchi così grossi nel welfare Usa hanno lasciato ai food stamps citati sopra il compito di distribuire almeno un po' di cibo.

L'alternativa che viene proposta in questo studio è un piano di 400 miliardi di dollari, destinati per 100 miliardi ai programmi sociali di sostegno ai redditi e ai proprietari di case requisite dalle banche, per 40 miliardi alla creazione di un milione di posti di lavoro nel settore pubblico e per 270 miliardi per coprire i deficit dei governi statali e locali per il 2010. Tutto questo potrebbe essere finanziato dall'aumento delle tasse sui ricchi e sulle operazioni finanziarie speculative, e da misure contro l'uso dei paradisi fiscali.

Di fronte a problemi così gravi, un piccolo segnale arriva dall'amministrazione Obama, che si è messa alla ricerca di un modo per tassare la finanza e recuperare una parte dei fondi spesi per i salvataggi dell'anno scorso (mancano 120 miliardi di dollari per rientrare dai 700 miliardi spesi finora). E' ancora braccio di ferro tra Casa bianca e Tesoro per decidere se tassare i bonus dei top manager, gli extraprofitti delle banche, o seguire gli esempi di Gran Bretagna e Francia che hanno imposto una tassa del 50 per cento - da far pagare alle aziende - sui "premi" più alti distribuiti ai banchieri (in Italia, al solito, il dibattito non esiste nemmeno). Ma la novità più sorprendente è che a Washington si riparla nientememo che di una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali - la Tobin tax proposta da decenni dai movimenti di tutto il mondo - per ridurre gli eccessi della finanza e generare risorse di cui i conti pubblici hanno un disperato bisogno. Dopo l'ubriacatura della finanza, finalmente una risposta della politica?

di Mario Pianta (da il manifesto)