Di quanto socialismo ha bisogno il Pd?

La cultura politica del Pd – e quella dei suoi progenitori, Ds e Margherita – è stata talmente pasticciata da render difficile rappresentarla in una direzione soltanto; la pratica, poi, è stata molto diversa dalle raffigurazioni. Il politicismo è stato imperante. Questo vuol dire che sono apparse le più svariate suggestioni culturali, talvolta mischiate nella stessa persona: l’innamoramento del ruolo del mercato con inclinazione a un rapporto privilegiato col sindacato, la convinzione di essere un partito «del popolo» con la subalternità e contiguità alle élite finanziarie, l’inclinazione verso l’assistenzialismo con le istanze estreme di liberalizzazione e antistatalismo. Stratificazioni del passato e suggestioni più recenti si sono sovrapposte disordinatamente. La somma non porta a tacciare le formazioni citate di fondamentalismo neoliberale o di simpatie thatcheriane, perché sarebbe una forzatura palese, pur ricordando che il leitmotiv di battute sommesse che circolavano all’interno affermava che in Italia non fos- simo stati così fortunati da avere avuto una Thatcher.


Detto questo, il giudizio non può ignorare che le suggestioni culturali siano andate gerarchizzandosi. Difficile non percepire che la sinistra «riformista» (da ora in poi «sinistra ») sia stata sempre più attratta da narrazioni, rappresentazioni, punti di vista, che assorbivano il pensiero dominante e stabilivano un consenso di sorta, per quanto spesso incoerente, intorno a un’agenda imperniata su soluzioni liberali per i problemi dell’Italia. Il tutto accompagnato da una perdita progressiva di orizzonte critico verso i caratteri che il sistema produttivo manifestava e da assorbimento del paradigma individualista, che fa da pendant a una concezione economica liberale del mondo.


D’altra parte, avendo deposto qualsiasi velleità di elaborazione (non dalla nascita del Pd ma da molto prima: basti pensare ai cinque anni buttati letteralmente via durante l’opposizione al governo Berlusconi 2001-06), avendo concepito con grande superficialità e piatta ritualità la funzione politi- ca, azzerato la discussione interna e dissipato capitali intellettuali e umani, era inevitabile che l’area di centrosinistra assorbisse abbondantemente ciò che trovava pronto per l’uso sul mercato delle idee, divenendo progressivamente priva di autonomia culturale. La cultura politica di un partito è l’alveo nel quale prendono vita il progetto e il programma: la grave crisi sul piano culturale («chi siamo») ha reso indefinito tutto il resto, a partire dalla proposta politica e di governo («dove vogliamo andare»).


Non ho dubbi, tuttavia, che l’acquisizione dei principi del mercato sia stata un’utile «alfabetizzazione» per il centrosinistra (rubo l’espressione a una ispirata lettera di Dario Di Vico di commento al mio ultimo libro). Gli elementi che contribuivano a diffonderla avevano una loro forza, a partire dalla necessità di un cambio di criteri nella conduzione economica dell’Italia, che la crisi della Prima Repubblica aveva reso improcrastinabile.


Da un lato, la crisi fiscale dello Stato rendeva inevitabile un sostanziale smantellamento della proprietà pubblica e dei monopoli pubblici, affidato nella fase iniziale a un rigoroso e prestigioso guardiano dei conti, tuttavia privo di qualsiasi gusto per l’ingegneria dello sviluppo. Era difficile anche non rispondere a una domanda crescente dal mondo produttivo per l’abbattimento della macchina burocratica e delle inefficienze, le cui responsabilità venivano rinvenute nel settore pubblico e addebitate a uno Stato oberato di compiti, paternalista e invasivo delle scelte private. Nel pensiero compiuto delle élite migliori di questa area (e in quello di tanti intellettuali e studiosi che dall’esterno hanno avuto ascolto e influenza) l’affidamento al mercato dell’assetto di molti settori era (non senza argomenti validi) la via per rendere più egalitaria, più efficiente e universalistica la fruizione dei servizi. Per altri, era il mezzo per mettere in movimento la società italiana, bloccata da veti, corporativismi e rendite di posizione, e congiuntamente un giudizio sulle qualità scadenti della classe politica, considerata incapace di condurre in modo illuministico l’intervento nell’economia (incluso il giudizio sulla classe politica espressa dal centrosinistra).


Ma, al di sopra di tutto, gli esiti della globalizzazione e dell’imperiosa espansione dei mercati – che nel giro di pochi anni creavano uno degli eventi più straordinari della storia di sempre, per diffusione, continuità e intensità della crescita, per l’uscita di miliardi di persone dal livello di povertà e per il rivolgimento epocale della geopolitica mondiale – sollecitavano all’adozione di un apparato di pensiero più consono ai tempi e alla storia, basato sulla convinzione che il nuovo modo di strutturarsi del capitalismo mondiale potesse essere governato e corretto (specie nelle sue conseguenze all’interno) anche con il concorso di una sinistra che ne avesse assorbito la lezione. Era un processo comune alla sinistra europea. Blair aveva dato un esempio – elettoralmente vincente – di rielaborazione in senso liberale della tradizione socialista, capace di diventare un catalizzatore per molta parte della sinistra europea e italiana. Ma, soprattutto, il centro della globalizzazione, gli Stati Uniti, mostrava una vitalità straordinaria del suo sistema produttivo, diventando un esempio guida, dal quale si ricavavano a scatola chiusa (in Europa e in Italia) gli insegnamenti delle virtù insite nella flessibilità dei mercati, nello Stato leggero, nella competizione e libertà di azione degli agenti, e le si riproponevano all’interno.


A fronte di questo contesto e scontando la forza delle ragioni oggettive per un ammodernamento del pensiero della sinistra, la preservazione di una identità che non snaturasse un sentire più vicino alla sua tradizione avrebbe richiesto una elevata capacità di elaborazione, che separasse le soluzioni liberali – spesso e volentieri utili, ma sempre da valutare nel merito dell’efficacia economica e sociale rispetto alle alternative – dall’orizzonte di riferimento posto dalla cultura economica liberale, assunta come cultura propria. Avrebbe richiesto che fosse rimasto vigile il senso critico verso i connotati che il mondo andava assumendo, separando, con un distacco marcato dal pensiero unico, gli aspetti progressivi e rivoluzionari della globalizzazione dalle sue conseguenze negative, di disordine mondiale e di mutazione, all’interno, di molti perni dell’ordinamento sociale (distribuzione del reddito, insicurezza lavorativa e produttiva, dequalificazione di larghi strati di popolazione, sperequazioni di potere, e quant’altro). Avrebbe richiesto, ancora, che il giusto riconoscimento delle molle individuali e della piena realizzazione della persona fosse disgiunto dai connotati di una cultura di massa, sempre più dominata dal senso individuale della vita e da una richiesta di libertà individuale disgiunta dal significato sociale della stessa (di cui dirò), che in politica aveva come corrispettivo il passaggio alla centralità del consumatore. Questa mancanza di nette distinzioni, che avrebbero richiesto ben altro spessore analitico e capacità di pensiero di quello che le formazioni citate potevano mettere in campo, ha consentito pochi argini alla penetrazione di visioni estranee alla tradizione di sinistra. L’humus culturale in quest’area, se pur non ha riprodotto per intero il paradigma liberale – essendo rimasto disordinato, contaminato e privo di una elaborazione compiuta e consapevole –, ha tuttavia portato all’affermarsi di una sorta di antistatalismo di principio che finiva per rendere a senso unico le soluzioni adombrate.


Nel corpo del pensiero, lo Stato spariva come attore responsabile dei processi con finalità sue proprie, salvo quelle (al meglio) di preparare il gioco degli agenti privati e di rendere efficienti i mercati. Il che non offuscava solo il ruolo dell’attore pubblico nell’arena economica e sociale, ma perfino la consapevolezza che fosse necessario un baricentro (di coordinamento centralizzato, per non parlare di governance), là dove le parole d’ordine riguardavano: «autonomia» e «decentramento» (delle istituzioni pubbliche, quanto delle politiche di sviluppo). Le realizzazioni, le proposte o le reazioni a ciò che andava succedendo sono testimoni a pari titolo di questi orientamenti. I


n Italia si sono verificati senza forte voce della sinistra una allarmante divaricazione dei redditi e un indebolimento delle classi medie. Un campionario di soluzioni che per fede liberista sono state varate, col risultato di mettere in svantaggio i nostri produttori rispetto ai competitori esteri che hanno beneficiato di uno Stato più accorto, lo si trova in G. Rossi, I disaiuti di Stato. Ma vorrei sottolineare anche che si è prodotta una competizione di piccoli operatori dell’«ultimo miglio » nel settore delle grandi utilities, trascurando la dimensione europea dei mercati e senza alcuna politica sulle reti, col risultato, in nome del consumatore, di trovare la grande impresa del settore telefonico paralizzata dai debiti e incapace di essere un player internazionale (non solo per le note vicende), o l’impresa elettrica smembrata e capace di espandersi e competere internazionalmente solo indebitandosi. S


ono solo esempi casuali tra i possibili, di cui non penso che le future generazioni ci debbano essere grate. I leitmotiv delle «riforme di struttura », dell’«Agenda di Lisbona» ecc., al di là della retorica (e di indirizzi talvolta centrati), hanno sempre nascosto in sé opzioni verso gli approdi salvifici dell’economia dell’offerta (che, al fondo, ipotizza esiti produttivistici da incentivi che rendono pienamente funzionanti i mercati, incluso quello del lavoro); un riferimento che è diventato un moloch per tutti i Paesi europei (Italia inclusa), quando l’Europa tutta soffriva di un problema macroscopico di governo della domanda globale; domanda in carenza della quale nessuna economia dell’offerta può scatenare una crescita autosostenuta (abbiamo preso sul serio in Europa la predicazione del Washington consensus, quando a Washington la pratica non dico che lo ignorasse, ma quasi).


Certo, non era la sinistra italiana in grado di modificare da sola lo stato delle cose, ma avrebbe potuto fare del problema della domanda una bandiera politica e culturale da agitare in funzione pedagogica e di controcultura, contestando le illusioni ottiche che avvaloravano l’idea che alla base della crescita statunitense avesse effettivamente il ruolo preminente l’economia dell’offerta. Ma come poteva la sinistra italiana avere una sua visione alternativa, se quello era il consensus, se i media all’unanimità diffondevano gli stessi messaggi e il partito (i partiti) aveva (avevano) perso la capacità di pensare in proprio? Certo, nel quadro che ha portato progressivamente a un superamento della vecchia cultura socialdemocratica, all’allentamento del legame con le organizzazioni dei lavoratori, all’assunzione del cittadino generico (nella sua veste di utente e di consumatore) a riferimento dell’azione politica vi è da un lato la metamorfosi, se non la distruzione, dei vecchi insediamenti sociali della sinistra democratica, dovuta al rimbalzo interno della pressione del nuovo capitalismo mondiale. Vi è dall’altro la perdita di strumenti subita da uno Stato nazionale inserito nei processi globalizzati.


Che la socialdemocrazia fosse figlia di una composizione sociale che non esiste più, è stato detto e scritto troppe volte per sostarvi. Ma, partendo da qui e elaborando su questa evoluzione della società, vi sarebbe stata la necessità per un partito «pensante» di ridefinire (spesso anche ribadire) le nozioni di bene pubblico idonee ai perseguimenti della sinistra (identificando in questo percorso le convergenze con pezzi di società). Sarebbe stato necessario ripensare le modalità d’essere di un partito portato dall’evoluzione delle cose a presentarsi più come sintesi della società che come espressione di insediamenti sociali. Sarebbe occorsa, quindi, una comprensione profonda della società che mettesse in grado di capire su quali sintesi ridefinire l’offerta politica. Includendo in ciò l’obiettivo – oltre a quello di andare controcorrente rispetto allo sfrangiamento del tessuto sociale e alla dispersione dei «lavori» (sottolineo il plurale) – di disarticolare, in un’offerta politica, il nucleo chiave del blocco di consenso dell’avversario, cioè un corpo sociale centrato sulla società produttiva diffusa e sul lavoro autonomo. In tutto ciò, il liberalismo economico, per quel che ha informato l’orizzonte politico e culturale, ha avuto e ha il sapore soprattutto di una scorciatoia astratta rispetto alla complessità del Paese e dei compiti. La giustizia sociale è qualcosa di più composito del quadrinomio merito-regole-opportunità- competizione, e temo che lo siano anche le ragioni della crescita. E così, le ragioni della coesione.


Al di là dei temi di merito, da giudicare – appunto – nel merito, ciò che è penetrato a sinistra di quell’impostazione è la parte più semplificatrice: il suo riferimento non ad una società reale, fatta di aggregazioni, reti, relazioni, centrali che orientano il giudizio dei singoli, e, dal punto di vista sociale, di condizioni differenti di partenza, ma a una società di individui atomizzati, nella quale il consenso si costruisce sul piano dei giudizi razionali (secondo il canone di razionalità di chi propugna le soluzioni). Il punto non è nelle questioni di liberalizzazioni «sì» e «no» (ben vengano, se utili), mercato «sì» e «no» (altrettanto, ben venga). È nell’abdicazione della politica da compiti di elaborazione di un assetto della società. Bastava lasciarlo al mercato. (Penso poi che sia un tutt’uno con questa lettura atomizzata il cammino verso un vero e proprio sradicamento del Pd dal suo stesso popolo e il suo sentire – partito leggero, partitomovimento, partito culturalmente amorfo, partito del leader, partito mediatico ecc.: tutte scorciatoie parallele.)


Una cultura che tenga conto di questa complessità, induca a saper entrare nel merito degli interessi, mediandoli e portandoli verso un traguardo collettivo condiviso, insista sui collanti, più che sulla competizione, e mantenga la bandiera della giustizia sociale non implica la preservazione di un apparato di riferimenti nella sua integrità socialdemocratico. In una società variegata come quella che si è andata formando, con classi che si sfumano e hanno perso il significato tradizionale, una identità centrata sul «noi» e «loro» (essenzialmente le forze del lavoro da un lato e la borghesia del capitale e della finanza dall’altro) sarebbe incomprensibile, politicamente e analiticamente. Un partito squisitamente «di classe » connotato dal rapporto speciale con i sindacati, le leghe, e i cooperatori ecc. si taglierebbe fuori da gran parte della società. Se ci sono convergenze, bene, ma ognuno è in grado di rappresentarsi da solo e un partito politico deve guardare al bene pubblico, non ai suoi «azionisti».


Detto questo, due lasciti della socialdemocrazia sono, tuttavia, imprescindibile patrimonio per un partito di sinistra. Da un lato, l’idea che la società va costruita attraverso le riforme e la partecipazione, governandola per spezzoni sociali e trovando il modo di raggiungere il compromesso possibile – a volte tra principi contraddittori (ad esempio crescita- eguaglianza, innovazione protezione) – mantenendone la coesione, in un equilibrio difficile di regolazione, intervento, salvaguardia dei diritti sociali, ragioni del mercato e dell’innovazione, giustizia distributiva e creazione di opportunità. E dall’altro, l’accento comunitario e solidaristico del suo humus culturale, che parte da una rappresentazione della totalità sociale diversa dalla somma dei singoli e fa sua la salvaguardia e la sollecitazione delle ragioni delle identità sociali e di gruppo, mediate e cementate con le ragioni di una identità collettiva e con quelle degli outsider.


Questo penso che si sia perso come pezzo fondante nella cultura della sinistra, con tutti i suoi corollari. In primo luogo, il rischio di non saper dare un’impronta a un gigantesco mutamento che il paradigma del capitalismo sta avendo dopo la crisi. (Il Pd è il più assente nei partiti della sinistra europea – che pure non brillano – nella riflessione a proposito.) Sono opzioni per le quali lo Stato rimane nodale. Non è un caso che la sinistra si sia trovata spiazzata quando la nuova destra (in Italia come in Europa) l’ha sfidata sul terreno dell’uso dei poteri pubblici e la crisi internazionale lo ha imposto.


Certo, lo Stato nazionale non ha più le leve decisionali e la presa sull’economia che aveva quando si sono costruite le fortune socialdemocratiche. Ma, primo, esso è stato dato per morto prematuramente e, secondo, i socialisti (europei) sono e sarebbero stati nella migliore posizione di demandare le prerogative a poteri sovranazionali, se avessero puntato (o puntassero) in questa direzione in coerenza con la loro stessa cultura (e se Blair e il laburismo britannico non ne fossero stati i principali avversari).


Volenti o nolenti, le fortune del liberalismo economico (di destra e di sinistra) devono fare i conti con una competizione politica che ritorna su un terreno da dove sembrava essere stata espunta e su cui tornerà a svolgersi in futuro: il migliore utilizzo dei poteri di scelta discrezionale dei governi ai fini di tenuta e sviluppo della società e dell’economia. Se quella discrezionalità comporta pericoli evidenti (specie dove la classe politica è inadeguata), questi non vanno enfatizzati, perché avverrà anche che chi userà male la discrezione sarà punito dagli elettori; chi la userà intelligentemente e con efficacia (quindi nei giusti gangli e con moderazione) premiato.


Sarà premiato chi saprà far coincidere le ragioni della sicurezza (in senso lato sociale, ambientale, di prospettive del futuro, personale) con quelle della crescita economica (senza nessuna pretesa che all’una presieda l’apparato socialdemocratico e all’altra quello liberale, perché le possibilità sono mischiate). Quello dell’utilizzo dei poteri pubblici è un terreno inedito di competizione su cui insistono, per una «anomalia» della storia, una nuova destra (più pronta a percorrerlo) e una sinistra moderata impreparata (o, nelle sue frange estreme, incline a rappresentare solo i perdenti della globalizzazione). Sfida inedita, perché la nuova destra è in versione populista, niente affatto avversa allo Stato sociale, comunitaria (anche se in senso regressivo), culturalmente più definita (anche se con punte di reazionarismo). Tutto riporta al terreno culturale, e di riflesso politico.


Sta di fatto che la nuova destra è apparsa più credibile verso chi chiedeva che ci fosse un governo del modo in cui la globalizzazione penetrava nel nostro Paese (ma la questione è simile in molte parti d’Europa) e protettiva verso chi è minacciato da cambiamenti troppo rapidi del contesto economico e sociale o si sente insicuro se lasciato a cavarsela da solo, o chiede solo tempo per adattarsi. Poco importa che la sua offerta fosse e sia inadeguata, illusoria e inefficace (anche se non del tutto), nonché carente nelle nuove opportunità. Il punto non è questo, ma nel fatto che mentre la sua cultura, forgiatasi nella critica al neoliberismo, ha consentito ad essa di intercettare l’insicurezza che si diffondeva nel corpo sociale e nell’economia, la sinistra – proiettata nella spinta progressiva della nuova fase storica del capitalismo, sempre più priva di antenne nella società e con l’anatema verso chi osasse parlare di Stato – non l’ha saputa cogliere o ha risposto (anche se più sul piano dell’agitazione che della pratica) con le «riforme di struttura » e formule di competizione.


Ha vinto non inaspettatamente la destra. E così, come in Italia, in altre parti d’Europa. È evocativa l’espressione di Di Vico quando rileva che «l’individuo moderno ha paura di restare solo in una stanza con il mercato, vuole che ci sia qualcuno con lui. La comunità, il sindacato ecc. Così come nessuno vuole schumpeterianamente morire ed immolarsi alla modernizzazione». Ma se questa è una giusta considerazione per capire in quale direzione e con quali supporti integrare l’appropriazione di visioni liberali (come egli sostiene e condivido), lo è meno se dovesse implicare che ad essa bisogna fermarsi senza «passare il Rubicone» del ritorno dello Stato.


La comunità, il sindacato, l’associazione possono, invero, «accompagnare per mano» i singoli se ricevono ruolo istituzionale (a meno di immaginare una società conflittuale), se hanno deleghe di autogoverno, se hanno dietro uno Stato che esprima una funzione di utilità sociale che non mortifichi le ragioni specifiche dei vari «noi» e che sappia individuare con chiarezza quali sono i traguardi di raccordo collettivi, operando per raggiungerli. In conclusione, sia in economia che in campo sociale, con l’avvento della nuova destra, oggi l’appello a una scelta di campo non basta nella contesa politica.


È significativo che la sinistra non sia neppure riuscita a rimanere proprietaria del «marchio» dell’ «economia sociale di mercato», che è il vessillo della sua storia. Il partito che la rappresenta deve convincere di saper azionare meglio di altri le leve di governo e essere riconosciuto come il miglior collante della società, in un progetto che valga per l’intero corpo sociale. Ma deve anche avere l’ambizione collaterale di conquistare gli animi e guadagnarsi prestigio, orientare l’humus culturale della società e quindi essere un polo di attrazione culturale e umana, dal quale, senza implicare disconoscimento della piena realizzazione delle capacità di ciascuno, emani un’offerta di senso che indirizzi i traguardi individuali dei singoli verso una sintesi superiore. La cultura di massa che si diffonde spontaneamente nelle società occidentali individualizzate (specie nelle periferie, nei ceti popolari, nel ceto medio-basso meno acculturato e professionalizzato, negli ambiti giovanili) è opposta e in un certo senso inquietante.


È una cultura di massa sempre più ripiegata sull’individuo, che esige spazi di libertà sempre più ampi, ma privi di limiti e responsabilità e dentro un senso tutto individuale della vita; che si ispira a principi edonistici staccati da un principio di realismo, che anela a grandi scorciatoie individuali al posto dell’impegno e della costruzione quotidiana. Ne nasce insofferenza, disincanto e un immaginario in cui i sogni tendono a essere confusi con la realtà (un’interessante analisi di questa cultura è in M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecnonichilista, Feltrinelli, 2009).


La destra, mentre è in grado di captare una domanda di protezione e di governo, è allo stesso tempo a suo agio con questo humus e ne beneficia (se non ne è anche artefice), in un puzzle in cui non è chiaro leggere le connessioni biunivoche; un puzzle difficile quindi da decifrare in una chiave lineare. Forse una può essere quella cui accenna Remo Bodei, dove afferma che dall’emorragia di senso «scaturisce la richiesta di certezze assolute, cercate spesso più nelle religioni e nei governi forti che non nella pratica e nel rafforzamento dei principi ispiratori della democrazia » (Assalto alla democrazia, «Il Sole-24 Ore», 5.4.2009). Ma certo è che quell’humus è tutt’uno con l’affermarsi di un rapporto passivo, di insofferenza o indifferenza verso la politica e l’ordine istituzionale; in virtù del quale masse di individui si riconoscono solo in un legame diretto con governanti demiurghi e paternalistici che dichiarano di agire in loro nome, in una acquiescenza di fatto che lascia a questi ultimi le mani libere.


Un processo che svuota la democrazia dei connotati suoi propri e della partecipazione e controllo. In questa trasformazione del tessuto antropologico della società, il partito del centrosinistra non può non coltivare e difendere l’ambizione a costituire un polo di resistenza culturale e di proposizione alternativa di una visione del mondo e delle responsabilità sociali. Senza una identità precisa che lo renda elemento di una controcultura di massa, esso non acquisterà quelle capacità di attrazione, di disvelamento critico, di idealità e utopismo, il cui potenziale diffusivo trasmetta un umanesimo diverso e processi solidi di democrazia. Non potrà non fondare la sua identità – come detto – in una cultura solidaristica e comunitaria, che cerchi le ragioni dello stare insieme.


Cultura che è poi parte della sua storia e del sentire dei suoi militanti, ai quali dovrà ricongiungersi. Una sinistra, invece, con una cultura indefinita e affastellata e una identità amorfa, come quella che ha avuto il Pd nella sua breve storia, non riuscirà mai ad essere quel polo alternativo, di azione e idee, con forza di attrazione e capacità egemonica e pedagogica, capace di porre un argine al diffondersi di modelli culturali iperindividualistici. Per quanto la sinistra non possa non appropriarsi largamente dell’approccio liberale (anche in economia), sarebbe disastroso se in nome del realismo e di una modernità male intesa, dal cedimento al presente, dalla cattiva analisi e da debolezza verso ciò che è trendy fosse portata ad allontanarsi dall’ambito del socialismo e non trovasse il coraggio di ridare un significato a questo termine che sia realisticamente adatto all’oggi.


di Salvatore Biasco, uscito nel n. 6/2009 de Il Mulino