Ormai giochiamo a chi le spara più grosse in fatto di cinismo. La mafia? Il più efficiente sistema di welfare dopo la Germania nazista, che grazie alle sue razzie in Europa riuscì ad aumentare le pensioni durante la guerra. Il tale o tal altro uomo politico colto con le mani nel sacco della refurtiva? È come l’acne adolescenziale, stupirebbe la sua assenza. Chi ha veramente sradicato la corruzione? Non certo Hitler, come ci ha insegnato tra gli altri Luchino Visconti. Forse Pol Pot, solo che fece mancare la materia prima sia dei corrotti che dei corruttori: per non sbagliare, li ammazzò tutti. Di questi tempi tira il disincanto, le sparate savonaroliane sono ineleganti in partenza e fanno diradare gli amici – scompaginano gli equilibri del salotto -, la stagione di tangentopoli non entusiasmò nessuno già allora, oggi al massimo evoca l’immagine di una sinistra avviata al disorientamento.
Era inevitabile che prima o poi i mariuoli comparissero alla corte di re Niklas Luhmann. Non quelli che si arrangiano nei supermercati o con i borseggi sugli autobus, ma i mariuoli veri e magari dotati di un tocco di classe: i corrotti. La teoria dei sistemi, di cui Luhmann è stato in parte il fondatore e in parte ancor più grande un raffinato interprete, ha lasciato inesplorati pochi territori ed ha sempre sofferto di bulimia espansionistica, ma solo ora la macchina del pensiero funzionalistico ha messo definitivamente a fuoco la corruzione. Tutti sospettiamo che le bustarelle racchiudano a volte più simboli che banconote, ma è raro che la corruzione diventi oggetto di analisi e non di querimonia, di denuncia o di sanzione. Dove nasce la rassegnazione alla bustarella come presenza fissa del paesaggio e come estrosa semplificazione di qualche meccanismo inceppato?
Mecenati e talent scout
Limitrofa com’è a forme elementari di socializzazione, tra le quali il dono, la corruzione è inafferrabile proprio a motivo della sua sgusciante ambiguità: anche un barone universitario che lucra favori sessuali o che schiavizza i suoi allievi come ghost writers si autointerpreta come un elargitore, come un mecenate o come un generoso talent scout. Il confine tra la gratitudine e la corruzione è molto precario. Nessuna riflessione seria sulla corruzione può saltare il nodo del dono, o incontrando i testi che lo hanno pionieristicamente avvistato come forma di comunicazione sociale, o affidandosi alle già strutturate ricerche legate al nome di Marcel Mauss: molti delinquenti incalliti, anche ricattatori, si offenderebbero se il prezzo di una transazione corruttiva fosse classificato come un compenso estorto e non come un regalo spontaneo.
Se si pretendesse di cancellare dalla faccia della terra la corruzione, bisognerebbe fare altrettanto per la seduzione: il che implicherebbe intanto la riscrittura di tutta la narrazione adamitica e sarebbe teologicamente indifendibile perché postulerebbe l’abolizione del diavolo, che è invece accasato da sempre come parte costitutiva della fede religiosa.
Sedotti e seduttori
Dispiace disilludere Di Pietro, ma se Berlusconi fosse il diavolo noi saremmo fottuti e Silvio sarebbe ineliminabile. Non da ultimo, la soppressione radicale della corruzione inasprirebbe le già tribolate vicende d’amore, che nella seduzione attiva e passiva trovano almeno una rudimentale cartografia, un canovaccio, un testo da seguire o un copione. Le radici antiche della corruzione si lasciano inseguire, di fatto, fino a scenari rituali e sacrificali che non a caso includono anche la magia e la stregoneria, giacché le streghe o sono sedotte (dal diavolo) o sono seduttrici. D’altra parte: varrebbe la pena campare senza sperare di recitare almeno una volta la parte della sedotta o della seduttrice, del sedotto o del seduttore? Anche con la seduzione diabolica, che peraltro intimidisce perché dispone di un corredo imponente di testi sacri fondativi, tocca venire a patti.
Il circuito fiduciario e confidenziale che scatta con la corruzione non aderisce agli schemi verticali degli arcana imperii e delle abditae camerae, ma ad una segretezza che include gli interessati e riserva diffidenza al pubblico escluso. E tuttavia anche il pubblico, informato dei possibili vantaggi o svantaggi attraverso pettegolezzi o racconti di soggetti coinvolti delusi o soddisfatti, sviluppa curiosità e interessi che sono fondati sull’imitazione e sulla rivalità. È il punto più dolente: la corruzione si autoalimenta accrescendo la probabilità di essere accettata ad ogni nuovo evento corruttivo.
La griglia delle passioni, quella che evoca per contrasto la gamma dei giudizi moralizzanti e dell’indignazione scandalizzata, non è assente (affascinante è, per esempio, il diagramma del trinomio avidità/sazietà/scarsità), ma non ha l’impatto auspicabile sul grado di estensione e sulla capillarità della corruzione. C’è semmai da render conto del capitolo metaforico, e chissà se – in tempi di bioingegneria e di implantologia – solo innocuamente metaforico, legato alle vicende del corpo e alla perfectio della natura soggetta a corruptio. In una concezione organicistica della società, o anche nella tradizione dei «due corpi del re» ricostruita da Ernst Kantorowicz, lo stato di sanità del corpo va continuamente verificato, ma non ci si può accontentare di ciò che è visibile e che si offre alla superficie. Se la parola latina corruptio ha anche il significato debole dell’alterazione o del guasto rimediabile, la parola tedesca Bestechung (corruzione) deriva dal linguaggio montanaro e indica la consuetudine di sondare lo stato interno delle costruzioni di legno dotate di vitale importanza. Un’altra radice della parola si riferisce all’attività di calzolai e cucitrici che pungevano la scarpa o il capo di vestiario per garantirne la compattezza e per evitare lo sfrangiamento dei margini. Una prova effettuata attraverso la «corruzione» doveva quindi produrre la possibilità di controllare uno stato interno e al tempo stesso di saggiare la tenuta delle parti in rapporto al tutto, come in ogni buona impresa organicistica.
Il parassita di Serres
Molti materiali storici ed etnologici possono essere riletti con occhi nuovi: se è del tutto prevedibile che si affacci il traffico delle indulgenze cristiane, contro il quale scese in campo Lutero, meno prevedibile è la comparsa dell’inquisizione o la parabola evolutiva dell’affitto, emersa da un sottile e lento depauperamento del diritto di ospitalità a partire dal medioevo e fino a tempi proto-moderni. In questo caso quella specie di maledizione inquietante di ogni razionalità sociale che è l’ospite getta luce, nel suo percorso, sul carattere parassitario della corruzione: ma in un senso meno banale dei suoi costi sociali complessivi (tanto, chi vuoi che se ne freghi) o della sua affinità alla logica da sanguisuga della rendita fondiaria.
In quanto «eccitatore termico», secondo la definizione che ne ha dato Michel Serres, il parassita non ha il potere di trasformare un sistema, ma quello di cambiarne a piccoli passi lo stato: spinge alla fluttuazione l’equilibrio o la distribuzione energetica del sistema. Al confine tra la funzione dell’incitare e quella dell’eccitare, esso altera lo stato energetico del sistema, i suoi spostamenti, le sue condensazioni: lavorando su deviazioni infinitesimali, ci conduce in prossimità dei più semplici e universali agenti del mutamento sistemico.
Claude Bernard definiva i veleni «re-agenzie reali della vita»: quasi quasi bisognerebbe benedirli. È così che la corruzione alza continuamente la soglia di percezione e, se esiste ancora, di voltastomaco: è forse il fenomeno che siamo soliti chiamare assuefazione, salvo il fatto che l’overdose farmacologicamente impazzita, come quella che il capitale finanziario ci rovescia periodicamente addosso, non è propriamente un fenomeno di corruzione, sia pure su scala gigantesca, ma una rapina. Eppure, anche qui si trovano vie di transazione e di risanamento: o come alta progettualità keynesiana o, più terra terra, come bassa cucina lobbistica.
Velenosa o meno che sia, la corruzione non si installa mai nella zona dei traumi e delle catastrofi, ma sempre in quella dei movimenti di piccolo cabotaggio e difficilmente intercettabili: non diversamente dal parassita, che è ad un tempo un intruso scroccone e, come suggerisce l’etimo, un commensale a pieno titolo. La silenziosità della corruzione, la quale diventa chiassosa solo con l’intervento del diritto e della magistratura – il che significa: di un altro sistema -, non dipende solo dal vincolo della segretezza che intercorre tra il corruttore e il corrotto, ma dalla funzione dinamicamente immunitaria che essa assolve quando sonda i territori del lecito e dell’illecito e la possibilità di ampliarli e di ridefinirli.
Il brivido della routine
Rispetto alla rete fittissima delle fattispecie giuridiche che la inseguono trafelate, perché è come cercare di acchiappare un’anguilla, la corruzione ha una marcia in più: frequenta solo le zone grigie dell’evoluzione. Al confronto, la politica e il diritto soffrono di una patetica anelasticità e dispongono solo di due opzioni: produrre azioni desiderate o schivare azioni indesiderate. Queste ultime possono essere vietate, mentre le prime possono essere consentite oppure può essere proibita la loro omissione. Il potere diffuso si àncora alla differenza tra vietato e concesso, approfittando dell’effetto di esclusione che essa genera. Ci sono azioni che non configurano un torto giuridico o che non sono espressamente consentite: la corruzione ritrascrive il potere da comando a influenza ed assorbe così insicurezza, perché il verificarsi della comunicazione non viene problematizzato. Una forma molto generale dell’influenza è l’autorità, che è in funzione quando si presuppone che un agente della comunicazione, se richiesto di fornire i motivi della sua comunicazione, potrebbe esporli come una scelta riuscita di un’informazione. Non bisogna chiedere i motivi, ma si può dare per acquisita la motivabilità: ecco perché c’è un assorbimento di insicurezza. L’influenza dell’autorità è anch’essa tacita: quando invece viene «interrogata», riapre le porte all’insicurezza.
Il guaio concettuale (e sociale?) della corruzione è proprio questo: ha a che fare con tutto e con il contrario di tutto. Sembra anche lecito sospettare che la corruzione sia a sua volta sedotta (si può dire?) dalla voglia di sporgersi, dal brivido dell’allontanamento dalla routine, dal caos come voragine o come mancanza di misura, dal rischio elettrizzante della trasgressione e dalla sfida lanciata ad un ordine mortifero e impiegatizio.
Fin qui alcune informazioni di base su come leggere il fenomeno della corruzione con l’ausilio di strumenti che prescindono dalla riprovazione morale e dalla sanzione giuridica. Ma alla resa dei conti potrebbe aver ragione la casalinga che, appena sveglia, pensa a voce alta: questi farabutti, insediati come sono nei posti giusti, si mettono in tasca, con uno solo dei loro imbrogli, l’equivalente di quel che mio marito metalmeccanico porta a casa in dieci anni di lavoro salariato. Il problema è che, con la verità lapalissiana e filosoficamente inattaccabile della casalinga, nella cosiddetta coscienza civile del paese non riusciamo a sfondare. Proviamo allora con ipotesi più rarefatte, e che Dio ce la mandi buona (questo è, a ben vedere, un tentativo di corruzione negoziale della divinità).
Bruno Accarino, il manifesto, 31 dicembre 2009