Qual è il linguaggio della sinistra?

«Non può dirsi popolare un partito che non riesce a parlare con chi guarda Rete 4». Lo ha detto il nuovo segretario del Pd Bersani nel suo discorso di insediamento, ed è una frase nevralgica. Fotografa la fatica, e forse l´angoscia, di un partito che si sente scalzato, se non dall´anima popolare del Paese, da alcune delle sue pulsioni e perfino delle sue abitudini. Un partito di insegnanti, di amministratori, di piccoli intellettuali, di ceto medio più o meno riflessivo, che pur contando su molti milioni di elettori sente sfocato e quasi inerte il suo rapporto con quelle che una volta si chiamavano masse popolari; e oggi sono il magma confuso, e confondibile, dei consumatori, dell´audience, delle clientele pubblicitarie e politiche (meglio: delle clientele pubblicitarie promosse a clientele politiche dal febbrile e a suo modo geniale lavoro del partito-azienda).

Bersani ha ragione, e mette (anzi rimette) il dito nella piaga. Ma enunciare con schiettezza un problema, tra l´altro noto e oramai annoso, ovviamente non basta a risolverlo. Specie se la soluzione di quel problema va a toccare tutte, o quasi, le ragioni profonde di una crisi di linguaggio che, per la sinistra italiana e non solo, è pluridecennale. In estrema sintesi: se per farsi capire da chi guarda Rete 4 bisogna parlare come Rete 4, allora ogni differenza, culturale e politica, perde senso e valore. Allora - brutalmente - Berlusconi ha stravinto. Perché la "chiave" di quel linguaggio è la semplificazione, e il suo successo "popolare" dipende esattamente dalla riduzione della realtà a un gradevole, maneggevole accessorio. Mentre la "chiave", pesante come una croce, maledetta come un dovere, che la sinistra si porta in spalle, è la complessità.

È la cognizione che la realtà è una cosa complicata, che la sua lettura è una cosa complicata, e che il primo inganno da disinnescare, se si vuole provare a essere una comunità cosciente, è appunto la semplificazione in quanto tale: non solo e non tanto perché è strumento di propaganda, quanto perché in sé, nella politica come nella vita, la semplificazione è menzogna.

Il rovescio della medaglia, ben noto a chiunque faccia comunicazione o faccia politica o faccia, a qualunque titolo, lavoro sociale, è che la complicazione è complicata. Genera un linguaggio spesso criptico, spesso respingente, e nei casi peggiori altezzoso e inconcludente in pari misura: ciò che si riassume, volgarmente ma significativamente, nelle accuse di "snobismo" e di "antipatia" che oggi grandinano su molta sinistra e sugli intellettuali di ogni calibro, dall´accademico che si occupa di Rilke e non di Moccia, all´autore televisivo che preferisce invitare Ivano Fossati piuttosto che Pupo.

Tradotto in politica, proprio quella politica territoriale e popolare che a Bersani sta molto a cuore, questo significa che se la sinistra, per "farsi capire dal popolo", cerca di fronteggiare il breviario di slogan oggi in corso con un contro-breviario di slogan alternativi, e cerca di munirsi di una contro-suggestione virtuosa da opporre alla suggestione berlusconiana, perde anche se dovesse vincere. Vale a dire: baratterebbe, per qualche voto in più, proprio quel residuo e prezioso patrimonio di pazienza intellettuale, di capacità analitica, che Bersani ha rivendicato, nella sua campagna per le primarie, come un valore identitario. Lo stesso Bersani, dichiarando recentemente che non sa cosa farsene di candidature puramente simboliche (stoccata al veltronismo), mostra di non gradire la politica-spettacolo, quella che sa guadagnarsi qualche inquadratura di telegiornale in più ma perde aderenza nella vita sociale, come un pneumatico di bella presenza ma di grip scadente.

Ma la politica della bella presenza, delle cerimonie edificanti, dei fondali color pastello, del cerone, delle frasi facili e delle soluzioni magiche, è esattamente il campo di battaglia dove più o meno tutti oggi ci si muove. Chi vuole entrare in quel campo, come tocca a Bersani e al suo Pd, con idee proprie e modi propri, deve sapere in anticipo che parte svantaggiato, che parte "antipatico", che lavora in salita.

Quando si dice che oggi, in Italia, il conflitto politico è prima di tutto un conflitto culturale, si vuole dire esattamente questo: che bisogna cercare di restituire allo sguardo pubblico una profondità sgradita. E nessuno più del "popolo" - come sapeva bene un tempo la sinistra - ha bisogno di sentirsi rispettato nel suo diritto di conoscenza e di cultura, piuttosto che relegato nel cliché, profondamente classista, di una massa immatura e bambina, da intrattenere e spremere con un palinsesto di sogni. Di destra o di sinistra, sempre sogni rimangono.

Michele Serra